Lunedì pomeriggio il resort egiziano di Sharm el-Sheikh è diventato il teatro di un summit internazionale su Gaza, convocato da Trump e dal presidente egiziano al-Sisi e seguito con grande attenzione dai media mondiali. A fianco di oltre trenta paesi hanno partecipato anche l’Unione Europea e le potenze mediatrici regionali.
L’incontro giungeva dopo eventi già drammatici: in mattinata Hamas ha liberato i 20 prigionieri israeliani ancora vivi, mentre Israele ha rilasciato quasi 2.000 detenuti palestinesi, in adempimento della prima fase del piano di pace sponsorizzato dagli Stati Uniti.
Dal suo ingresso nel summit, Trump ha scandito che questa era l’alba della “fase due” dei negoziati: quella in cui si dovranno negoziare le questioni più complesse — il disarmo di Hamas, il ritiro israeliano completo, la futura governance del territorio. Ma, come hanno commentato giornali internazionali come Reuters e Al Jazeera, l’incontro ha assunto soprattutto le caratteristiche di un evento simbolico piuttosto che di un’operazione diplomatica strutturata. 
Il documento conclusivo — firmato da Trump, al-Sisi, dal Qatar e dalla Turchia — è una dichiarazione comune di intenti: pace duratura, rispetto dei diritti umani, sicurezza, dignità, lotta all’estremismo. Ma non contiene scadenze precise, modalità operative né criteri di supervisione.
Il grande assente è stato Israele nella forma ufficiale: il premier Netanyahu non ha partecipato, anche se la sua presenza era stata prospettata e persino mediata da Trump. La decisione di non partecipare, motivata con la vicinanza di una festività ebraica, è stata vista da molti osservatori come un segnale di cautela nei confronti del piano.
Parallelamente, l’assenza di Hamas al tavolo — pur essendo parte della fase di scambio ostaggi — traduce il fatto che l’iniziativa resta fondamentalmente esterna, senza il coinvolgimento diretto delle parti principali.
L’eco dell’evento nei media internazionali è duplice. Alcuni commentatori — in linea con l’approccio Usa di “diplomazia spettacolo” — hanno elogiato la capacità di mobilitare una platea mondiale e di dare una cornice politica alla tregua. Altri, invece, sottolineano che il summit potrebbe restare un abbellimento diplomatico senza radici operative nel mondo reale.
In definitiva, Sharm el-Sheikh ha decretato la transizione da una fase di conflitto attivo al tentativo di costruzione diplomatica. Ma resta l’interrogativo cruciale: riuscirà questo nuovo momento a tradursi in politiche concrete sul terreno, o rimarrà un summit fotografico destinato a essere dimenticato?