Sono quasi 900 le persone tratte in salvo dalle pendici tibetane del Monte Everest, dopo che una violenta tempesta di neve ha bloccato centinaia di escursionisti e pellegrini a quote superiori ai 5.000 metri. L’operazione di soccorso, coordinata dalle autorità cinesi e da squadre di volontari locali, è una delle più vaste mai realizzate nella regione himalayana. La bufera, iniziata il 4 ottobre, ha colpito l’area panoramica di Qomolangma, dove si trovavano oltre 1.300 persone, tra turisti, guide e residenti. Le condizioni meteorologiche estreme, con venti fino a 100 km/h e temperature sotto i -15°C, hanno reso impraticabili i sentieri e isolato decine di accampamenti. Secondo l’agenzia Xinhua, almeno 200 persone hanno riportato sintomi da ipotermia e disidratazione, ma non si registrano vittime. Le autorità della contea di Tingri hanno mobilitato più di 400 soccorritori, tra cui membri della Blue Sky Rescue Team, militari e abitanti dei villaggi. I soccorsi sono stati effettuati a piedi, con droni termici e veicoli speciali, mentre le comunicazioni radio venivano interrotte a intermittenza dalla neve. “Abbiamo camminato per ore nel buio, con le torce e le coperte sulle spalle,” ha raccontato un volontario. Il governo ha sospeso l’accesso all’area turistica e ha allestito centri di accoglienza a Kudang e Shigatse, dove i sopravvissuti ricevono cure mediche e assistenza psicologica. Intanto, 13 persone risultano ancora disperse, e le ricerche continuano. La vicenda ha riacceso il dibattito sulla sicurezza delle escursioni in alta quota e sulla gestione del turismo di massa in ambienti estremi. Il Monte Everest, simbolo di sfida e spiritualità, si è trasformato in teatro di una corsa contro il tempo, dove la solidarietà ha fatto la differenza.
