Armadi pieni, coscienza vuota: il lato oscuro dell’ “usa e getta” della moda

E’ sempre bene ricordare che la fast fashion promette abiti economici e armadi sempre pieni, nascondendo dietro un conto salato che pesa sull’ambiente e sull’equità sociale. Ma anche sulla nostra salute mentale
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Quante volte abbiamo pronunciato la celebre frase “non ho niente da mettere” anche davanti ad armadi straripanti, puntualmente ripuliti stagionalmente per non finire come i protagonisti del reality “Sepolti in casa”? Eppure la nostra voglia di comprare sembra incessante e cresce ogni anno. Il marketing sa come stimolarla ed ha al suo fianco un alleato pericoloso: la fast fashion.

Un tempo era la norma avere uno o due vestiti “buoni” per le occasioni speciali e il resto magari ereditato dai fratelli e sorelle, mentre i nuovi acquisti erano più ragionati. La generazione precedente a quella di un trentenne medio comprava di meno, anche perché internet non esisteva e i brand di qualità avevano prezzi alti, seppur giustificati. Oggi tutto è cambiato, anche i materiali più modesti seguono linee da catalogo, ma costando pochissimo. È il fenomeno della fast fashion: vestiti comprati compulsivamente, indossati poche volte, poi scartati o regalati.

Dietro questo comportamento c’è una psicologia del consumo quasi compulsiva: il bisogno di novità, la gratificazione immediata, l’importanza identitaria del look, i social che esaltano l’outfit del giorno e gli acquisti online ridotti a un click. Terreno perfetto per la moda “usa e getta.” Ma a che prezzo arriva quel costo così basso? Anche se i consumatori conoscono i problemi etici ed ecologici della moda veloce, spesso scelgono di minimizzarli o di ignorarli. Una scelta poco saggia, perché le conseguenze tornano indietro come un boomerang e a pagarne il prezzo saranno soprattutto l’ambiente e le generazioni future.

Lo sconto che diventa scotto da pagare

Una ricerca sui comportamenti dei consumatori condotta da Garson & Shaw, azienda statunitense specializzata nel riciclo e nella rivendita di abiti usati, mostra come l’orientamento della Gen Z riguardo alla fast fashion e alla pressione di dover apparire sempre alla moda, alimentata dai social e dal bisogno di appartenenza, favoriscano la FOMO (fear of missing out), ovvero la paura di rimanere esclusi e di perdersi ciò che gli altri condividono. Questo fenomeno incide molto negativamente sulla loro salute mentale, come dichiara circa il 50% dei giovani intervistati.

Il concetto di FOMO sembra ormai regolare la vita dei giovani, che appaiono sempre più mossi da questa ansia piuttosto che dal piacere dell’acquisto. La paura di rimanere indietro, il senso di inadeguatezza e la costante pressione a stare al passo con i trend del momento sono senza dubbio carburante per la macchina della fast fashion.

Le dinamiche ricordano quelle di una dipendenza: un incredibile desiderio e una smania di acquistare, seguiti però da un devastante senso di vuoto. Infatti, se da una parte la Gen Z è schiava di questo sistema, dall’altra sperimenta un enorme senso di colpa, poiché forse più consapevole delle generazioni precedenti delle conseguenze etiche e ambientali di questi acquisti “mordi e fuggi”. E purtroppo questi pensieri sono ben giustificati, considerando l’impatto terribile che questo modo di comprare ha sul Pianeta.

Fast fashion: il bisogno compulsivo di novità

Il SIWI (Stockholm International Water Institute) stima che il settore tessile consumi ogni anno circa 93 miliardi di metri cubi d’acqua, con circa il 20% dell’acqua dolce inquinata da tintura e rifinitura dei tessuti. Significa che dietro la leggerezza di un abito estivo o di una felpa low cost si nasconde un’impronta idrica enorme, che grava soprattutto sui Paesi produttori.

A questa pressione sulle risorse si somma quella climatica. Secondo l’Apparel Impact Institute, nel 2023 le emissioni globali dell’abbigliamento sono cresciute del 7,5% rispetto al 2022, arrivando a circa 944 milioni di tonnellate di CO₂eq. La dipendenza dal poliestere vergine (57%) e il basso ricorso al riciclato (12–14%) mettono in evidenza quanto la moda “cotta e mangiata” ci inganni nell’illusione di risparmiare, facendoci invece indebitare con l’ambiente.

Montagne di vestiti e incendi tossici

Quando questi capi, prodotti a ritmo incessante, escono dal nostro guardaroba, non scompaiono certo nel nulla. Il WRAP (Waste & Resources Action Programme) evidenzia che milioni di tonnellate di vestiti usati finiscono ogni anno in Africa, Asia e America Latina. Solo il 10–30% viene riutilizzato dai locali, mentre il resto si accumula in discariche a cielo aperto, delle vere e proprie montagne, che, una volta colme, vengono spesso bruciate. In luoghi come il deserto di Atacama queste montagne di abiti invenduti o dismessi sono talmente vaste da essere visibili dai satelliti. La tragedia è che da questa combustione le sostanze tossiche penetrano nel terreno, nel suolo e nell’ aria e a pagarne il conto in termini di salute sono le popolazioni che vivono in quelle zone.

Il prezzo etico del low cost

Eppure, il costo più alto non lo paga solo l’ambiente. Secondo l’ “Ethical Consumer Magazine” milioni di lavoratori del settore vivono al di sotto della soglia di povertà, privi di un salario dignitoso. Le donne sono le più penalizzate, perché non solo percepiscono meno degli uomini, ma spesso subiscono molestie e violenze psicologiche. La paura di perdere l’impiego rende difficile unirsi in sindacati e il contatto prolungato con sostanze chimiche in ambienti poco sicuri compromette gravemente la salute.

E’, quindi, auspicabile che la prossima volta che capita di vedere un video su TikTok di un influencer che ci invita a comprare qualcosa che costa pochissimo perché è “un affare” o di trovare un prezzo incredibilmente basso, ci si fermi un momento a riflettere su dove arriva davvero quella convenienza. Possiamo decidere cosa comprare e chi finanziare. Forse rinunciare a 200 abiti inutili è uno degli investimenti più concreti e importanti che possiamo fare, per noi, per i nostri figli e per chi lotta solo per la sopravvivenza.

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