Come Ulisse si destreggiò tra infinite peripezie e insidiose lungaggini per tornare a baciare la sua “petrosa Itaca”, così oggi, in Italia, il praticante avvocato affronta innumerevoli sfide e incredibili disagi per ottenere il tanto agognato titolo professionale che merita, e che comunque spesso, purtroppo, non gli garantisce neanche la brillante carriera o il prosperoso benessere che desidera.
Al termine di un percorso accademico impegnativo e interminabile, fatto di manuali e di codici, l’aspirante avvocato affronta un tirocinio di 18 mesi, coadiuvato da un legale, che si assume il compito di istruirlo al fine di mettere in pratica le nozioni e i principi appresi nel corso degli studi, nonché di introdurlo nel caotico mondo dei Tribunali, fatto di aule di udienza, cancellerie, fascicoli, copie, e perché no, estenuanti code e momenti di attesa.
Superato lo scoglio della pratica forense, debitamente documentata in un libretto in cui devono essere indicate per ogni semestre, le presenze in udienza, gli atti redatti e le questioni giuridiche oggetto di studio e di discussione, la prova mater, che separa l’aspirante dal mondo del lavoro, è l’agghiacciante esame di abilitazione.
Esso si articola in tre prove scritte, previste in tre giorni consecutivi solo nel mese di dicembre, così suddivise: parere di diritto civile, parere di diritto penale e atto giudiziario, e infine, solo per i candidati ritenuti idonei all’esito dello scritto, in una prova orale, tenuta a quasi un anno di distanza dagli scritti, e relativa a sei materie a scelta tra le quali sono obbligatorie una procedura e la deontologia professionale.
Il sistema in definitiva impone una selezione dei futuri procuratori, che invece di essere demandata alla libera concorrenza e alle leggi di mercato, come dovrebbe avvenire per qualsiasi libera professione, viene eseguita, alla stregua di una procedura concorsuale, da una commissione costituita di norma da professori universitari, magistrati e avvocati, che sono dunque chiamati a decretare per ogni candidato l’ingresso o meno nel mondo del lavoro, di cui essi stessi fanno parte e che inevitabilmente dovranno condividere con i giovani neo avvocati.
Appare evidente il fatto che il semplice conseguimento del titolo abilitativo non costituisca il traguardo finale per il giurista, che divenuto avvocato, soltanto sulla carta sarà in grado di esercitare la professione, in quanto in concreto egli dovrà incominciare a costruire ex novo una rete di propri clienti, condizione indispensabile per svolgere il proprio lavoro e conseguentemente guadagnare e rendersi finalmente economicamente indipendente.
Le ripercussioni economiche di questo farraginoso sistema d’altronde sono evidenti e gravose.
Il praticante avvocato anche se abile e preparato spesso non percepisce alcuna retribuzione e pertanto è costretto, durante il post lauream, a continuare ad erodere le finanze familiari anche solo per sopravvivere, considerando anche che le città dove si è soliti trasferirsi per trovare occasioni lavorative migliori, sono allo stesso tempo le metropoli che costituiscono anche i centri più dispendiosi della nazione, come Roma o Milano.
Non può inoltre in alcun modo tacersi dell’esoso costo rappresentato dall’esame di stato in sé e per sé. Tralasciando i tributi da versare per la semplice iscrizione, sicuramente gli importi più cospicui sono rappresentati dai corsi di preparazione, che si aggirano all’incirca intorno ai 1000 € e dagli immancabili codici commentati aggiornati, per i quali sono necessari circa 400 €.
Insomma, in definitiva il percorso per diventare avvocato è lungo, costoso e ricco di imprevisti e ostacoli e soprattutto incerto, in quanto gli ingenti investimenti economici e non, non sono per nulla garantisti di un futuro lavorativo stabile, sereno e prosperoso.
Se quella appena tratteggiata è la condizione esistenziale del praticante avvocato in tempi di normalità, è innegabile il fatto che l’attuale situazione emergenziale causata dall’epidemia del covid-19 ha ulteriormente aggravato ed esasperato la realtà dei giovani giuristi.
In primo luogo, i tempi d’attesa per conoscere l’esito della prova scritta, già normalmente logoranti, sono stati ulteriormente dilatati, causa il blocco delle correzioni intervenuto all’inizio di marzo. In secondo luogo, non è stato adottato alcun provvedimento economico finalizzato a tutelare la posizione dei praticanti, i quali, a causa della loro natura di quasi-liberi professionisti, e in assenza di rapporti di dipendenza, sono risultati inidonei a percepire qualsiasi forma di contributo.
In sintesi, non esiste alcuna tutela per i praticanti avvocati, che se già ordinariamente sono sottoposti ad una procedura di selezione estenuante e spesso anche inefficace, oggi più che mai sono stati vittime di una palese e manifesta disparità di trattamento, laddove nessuno, nelle more dell’emergenza, ha dimostrato di volere considerare e in qualche modo tutelare i loro interessi, adottando provvedimenti che consentano loro di poter uscire da questo limbo di danni e incertezze e ottenere risposte chiare su cosa li attenda.
Invece all’orizzonte non si profila altro che la mancanza di previsioni sulle tempistiche e di ipotesi sulle modalità di correzione, nonché l’assenza di contributi economici, accompagnate dalla percezione di un profondo disinteresse rispetto alla sorte di migliaia di giovani in attesa.
Come avrebbe detto Montesquieu. “Giustizia ritardata è giustizia negata”.