In “Cento pagine”, che è anche il titolo del suo libro appena presentato nella Sala Zuccari del Senato, l’onorevole Roberto Morassut, già Sottosegretario di Stato per l’Ambiente e la tutela del territorio e del mare durante il Governo Conte, riassume tutta la voglia di tornare a riaprire il dibattitto politico, guardando ai grandi del passato per capire come cambiano le democrazie nell’era digitale.
Onorevole, vuole raccontarci di cosa parla il suo libro?
È diviso in 5 capitoli. Il primo è dedicato al tema della democrazia digitale, della democrazia diretta, e all’equivoco che si è prodotto nel dibattito pubblico sulla spinta di un certo populismo. Non è mai stato vero che possa esistere una democrazia diretta che superi i diaframmi della democrazia rappresentativa, quella dei corpi intermedi, non esisteva neanche nella antica Grecia, in cui le democrazie erano piccole. La intermediazione è fondamentale, altrimenti vincono sempre e solo i più forti. Il secondo capitolo è dedicato all’anniversario del centenario della storia del partito comunista, che tendiamo a vedere come una storia unitaria, ma che, invece, ha avuto delle enormi complessità al suo interno e che ha sempre oscillato tra una rigidità delle forme, un rincorrere la compattezza del sistema e dell’organismo, e invece i tentativi di cambiamento, che però sono stati via via riassorbiti. Questo contrasto c’è sempre stato, vedi Togliatti e Gramsci, Lenin e Stalin, fino alla fine del comunismo, quando Gorbaciov tentò addirittura di uscire dal meccanismo, senza riuscirci. Fu detronizzato. Il comunismo e il PC non sono stati una esperienza che può essere letta in maniera monolitica, sono stati un grande campo di continue dialettiche interne. Come peraltro tutto il ‘900, dove c’è stata ideologia, ma anche eresia; abbiamo avuto le dittature, ma anche l’arte contemporanea che ha ribaltato i criteri della cultura moderna.
La terza riflessione è sulle figure di Matteotti e Berlinguer. Tra questi due personaggi, apparentemente e incredibilmente lontani, a distanza di anni trovo dei fili comuni. In ogni caso, due figure della sinistra mose da grande idealità. Matteotti era un pacifista internazionalista convinto, ma anche un uomo pratico di conti, di amministrazione, che, quindi, univa il pratico all’ideale. Berlinguer è sempre stato un comunista, non l’ha mai negato fino alla fine, ma era un comunista particolare anch’egli con senso pratico, consapevole della gradualità dei passaggi per arrivare a determinati risultati. Entrambi hanno dovuto lottare sui i due fronti opposti che il movimento operaio, socialista e democratico si è trovato e si troverà sempre ad affrontare in Italia: da un lato i reazionari che vogliono fermare l’avanzata delle forze progressiste delle classi più umili e dall’altro i massimalisti che pensano che l’avanzata verso il progresso debba essere determinata dalla violenza. Entrambi, invece, lo ritenevano falso. Il quarto capitolo è dedicato alla evoluzione del partito democratico, cioè all’idea che si debba uscire un po’ dal recinto del partito classico, dal partito delle strutture, verso un partito molto più aperto, molto più fiducioso. Immagino un partito con molta più fiducia nella vitalità democratica che esiste nella società fuori di sé. Ci sono forme partecipative, di lotta, di impegno democratiche nella cultura, che dobbiamo intercettare.
La quinta riflessione è dedicata a Roma capitale, sua città di adozione, come mai?
In questa fase si discute di autonomia regionale differenziata, senza tenere conto delle città quando il regionalismo italiano è un regionalismo di città. Noi siamo il Paese delle 100 città, quindi occorrerebbe dare degli ordinamenti forti almeno alle tre grandi città italiane: Roma, Milano e Napoli. Un grande tema inevitabile che va discusso.
Cinque temi diversi, uno più importante dell’altro, ma apparentemente slegati. Lei stesso definisce il suo libro “assurdo”, perché?
Perché è un libro che non ha un inizio e una fine. Non c’è una tesi, una concatenazione, è un libro che mette insieme riflessioni fatte nel tempo, apparentemente in modo paratattico e indiscriminato, ma con un filo rosso comune, che è il tema della democrazia e del suo rinnovamento nell’epoca del digitale.
Riflessioni che sembrano nascondere una velata critica alla sinistra per una certa mancanza di coraggio verso scelte anticonvenzionali e il rinnovamento?
Avverto in questa fase la necessità di un’analisi su quanto sta accadendo alla democrazia italiana, in particolare sull’istituto parlamentare. Non bisogna rispondere alle proposte di riforme costituzionali della destra, che noi respingiamo, solo con una difesa dell’esistente, che presenta enormi limiti. La democrazia parlamentare attuale si sta logorando velocissimamente, sia come base popolare – vota poca gente – sia come funzionamento degli istituti parlamentari. Abbiamo bisogno di una riforma delle istituzioni parlamentari e come PD di riprendere il cammino interrotto nel 2016, mettendo la centro la nostra politica e la riforma di alcune strutture costituzionali.
Esattamente, cosa si aspettava di più coraggioso da parte della sinistra?
Due cose. Uno: nella discussione sul Premierato e il Semipresidenzialismo, occorre prendere atto che la Repubblica parlamentare così com’è non può più funzionare, soprattutto il bicameralismo perfetto, perché ormai l’Esecutivo ha preso la deriva di appropriarsi della funzione legislativa. Con la destra questo è diventato patologico, ma la tendenza c’era già prima. E questo svuotamento di funzioni pone il problema di che cosa debba fare il Parlamento, che, per accrescere la confusione, si è messo addirittura a occupare spazi che sono della magistratura. Sono state approvate decine di commissioni di inchiesta parlamentari che svolgono una funzione quasi para-giudiziaria, di para-tribunale. C’è bisogno di rimettere ordine, tenendo conto che l’opinione pubblica vota sulla base di tre cose: un programma chiaro, una coalizione di Governo e un alfiere. Io lo chiamo alfiere, per non chiamarlo capo, perché mi dà fastidio questa espressione. Quindi la discussione sull’elezione diretta, del Presidente della Repubblica o del Presidente del Consiglio, non deve scandalizzarci troppo, bisogna farla in modo giusto, respingendo le proposte della destra, ma senza escluderla del tutto.
E della autonomia differenziata cosa pensa?
È l’altro corno del problema, l’articolazione dei poteri nei territori. L’autonomia differenziata è una follia, perché accresce la ricchezza delle regioni ricche e la povertà delle regioni povere. Bisogna secondo me partire da un altro presupposto: riequilibrare i territori.
Forse le “Bassanini” non hanno poi funzionato così bene?
Non hanno funzionato come si sperava, ma sono stati elementi molto importanti, però preludevano a una forma federale dello Stato, che non si è realizzata. Nel momento in cui si dice che c’è una legislazione concorrente, stai aprendo necessariamente una porta ad una forma federale dello Stato, che è rimasta a metà strada e quando questo accade nasce l’incertezza. Se si vuole andare in una direzione di maggiore autonomia delle regioni, bisogna che siano più equilibrate, che non ci siano più regioni da 300.000 abitanti come il Molise e regioni da 9 milioni di abitanti come la Lombardia. Bisogna riequilibrare i bacini territoriali, accorpando le regioni e riducendole almeno a 12.
Pensa in particolare al Sud Italia?
Nel Mezzogiorno una parte del territorio italiano è troppo frammentata e, quindi, debole, anche per poter svolgere un ruolo geopolitico nel Mediterraneo. Perché questo è il problema del Mezzogiorno italiano e dell’Italia, il suo ruolo in una area che è critica.
Alla luce di questi cambiamenti auspica un rinnovamento del suo partito?
Spesso le nostre discussioni sono un po’ convenzionali, perché sono condizionate dal difetto del correntismo interno di cui non ci siamo liberati completamente, anche adesso sebbene la Schlein stia facendo un grosso sforzo. Il correntismo comporta una riduzione della libertà critica delle persone, quando si è incapsulato in una corrente si incorre nella pigrizia, si finisce nel convenzionalismo appunto. E nello stesso tempo queste correnti discutono più di potere che di politica. Noi abbiamo un’eredità strana, da un lato il correntismo della vecchia DC e dall’altro il convenzionalismo del vecchio PC, che discuteva ma poi alla fine, per convenzione, si era tutti d’accordo.
Ma del mancato compromesso storico, che è costato la vita ad Aldo Moro, che eredità è rimasta?
È importante che le grandi culture politiche democratiche si sono unite finalmente, grazie a Veltroni, in un’unica forza politica. Si sono raccolti in un progetto comune. Questo è molto importante, però non è che la nascita fa tutto, non è che l’avvio di un’esperienza fa tutto. Quell’esperienza poi va coltivata, bisogna innovarla, bisogna seguirla, bisogna farla crescere. Ecco, dopo la nascita, questa attenzione alla innovazione, a coltivare l’esperienza, non c’è stata e siamo rimasti fermi.