Se c’è un punto che sfugge ai britannici sono le sfumature mediterranee di Boris Johnson. Ed è, senza colpe per nessuno, uno dei punti chiave di questa storia. Se infatti è vero che gli anni di formazione accademica sono determinanti per la forma mentis di una persona, per uno che delle lettere classiche ha fatto la passione di una vita i riverberi di Omero e degli autori latini sono una presenza costante: dall’enfasi gestuale in certi passaggi fino alla naturale coloritura di alcune espressioni, un italiano non ha difficoltà a cogliere le nuance.
Per questo, con lo stesso grado di inaffidabilità che viene spesso accreditato agli abitanti del Bel Paese, culla di cultura latina, su cosa succederà nel futuro della piccola e media impresa italiana con interessi oltremanica, beh dipenderà dai tavoli negoziali post-Brexit. E non è un’equazione lineare. Se infatti è vero che il 31 Gennaio 2020 il Regno Unito sarà formalmente fuori dall’Unione Europea, è altrettanto vero che fino alla fine dell’anno – il cosiddetto periodo di transizione – tutto resterà come è già adesso. Nel frattempo, auspicabilmente, si sarà trovata la quadra sul fronte degli accordi commerciali.
Già, gli accordi commerciali: un efficacissimo strumento di politica estera che potrebbe rivelarsi arma assai spuntata per il Regno. Il quale, costretto in un angolo, potrebbe optare per l’armageddon finale, la cicuta del no-deal, l’uscita senza accordo. Ciò spiegherebbe, a sentire l’opinione di autorevoli commentatori, perché il no-deal non è un’opzione sul tavolo delle negoziazioni, ma il tavolo vero e proprio perché un’uscita disordinata non farebbe sconti a nessuno. Basti a pensare alla complessità del settore automobilistico, per esempio, che interessa più Stati nell’arco dell’intero processo produttivo.
Il piano, assicura dunque Johnson, è chiaro: primavera per le trattative sui punti chiave con dettagli e formalizzazione regolatoria nei mesi che seguono. Irrealistico per il Presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, di recente in visita al 10 di Downing Street, come pure per la quasi totalità degli esperti. Anche Johnson lo sa bene che la materia è assai complessa per cui mette le mani avanti anticipando che ci saranno attriti e che il governo sarà “più aperto a esplorare le opportunità di divergenza rispetto ai vincoli di allineamento”. E questo, mentre il suo braccio destro, Dominic Cummings, geniale artefice della campagna per il Leave, si porta avanti col lavoro annunciando un repulisti nella macchina amministrativa: c’è bisogno di gente che pensi fuori dagli schemi, dice, in una catena decisionale più corta.
Questo gioco del gatto e della volpe che mira a fare dell’Unione vittima sacrificale comincia a stancare la controparte. Si sa bene che se è vero che attraverso gli accordi commerciali si definisce il peso di una nazione rispetto a un’altra perché, per esempio, dall’assenza o meno di tariffe doganali si determinano reciprocità e rapporti di potere basati sui benefici per i consumatori dei rispettivi contraenti che tradotto vuol dire voti, è altresì vero che il pallino del gioco è tutto nelle mani dell’Unione Europea.
Ed è questo l’architrave del ragionamento. Se da un lato il Regno Unito registra un surplus commerciale nei servizi, che vuol dire élite metropolitana che ha votato a favore del Remain, di segno opposto è invece la bilancia commerciale rispetto ai beni nella cui produzione la stessa working class, che ha abbandonato Corbyn per Boris nelle ultime elezioni, gioca un ruolo chiave.
Insomma, si tratta di un complesso rebus che tiene tutti con il fiato sospeso, cittadini britannici inclusi. A confermarlo, un dato che non è passato inosservato agli analisti: le vendite del commercio al dettaglio nell’ultimo trimestre del 2019, ovvero Natale, hanno visto una brusca frenata. Le ragioni sarebbero da ricercare non tanto nel dilagare del commercio elettronico, dove per esempio Amazon possiede un fetta pari al 5% del mercato, ma nel più generale clima di incertezza politica legata a doppia mandata da un lato agli interrogativi che una così ampia maggioranza conservatrice nella Camera dei Comuni solleva, con particolare riferimento a cosa ne sarà dei voti conquistati da Boris Johnson nelle ultime elezioni politiche di dicembre in aree storicamente rosse e, dall’altro, a quali saranno gli esiti delle trattativa tra Bruxelles e Londra.
In altri termini, nella peggiore delle ipotesi, a ballare sarebbero potenzialmente migliaia di posti di lavoro stritolati dal doppio vincolo Brexit: da un lato la graunder colonialista con cui certa parte del Regno non ha mai fatto del tutto i conti e che ha visto nel mandato popolare una via d’uscita all’eterno conflitto nel Partito Conservatore per tornare a giocare un ruolo di primo piano sullo scacchiere internazionale; dall’altro, la legittimazione a queste richieste arrivata dal popolo in cambio di maggiore protezione sociale prima attraverso lo storico referendum del 2016 e poi attraverso il plebiscito delle ultime elezioni generali. Cui prodest?