Senatrice Tiraboschi, il capitalismo digitale, è attraente per la sua capacità di rimodulare il rapporto tra tecnologia, riduzione dei costi e condivisione delle informazioni, ha, però, o un duplice rischio. Quale?
Per trent’anni o forse più gli imprenditori hanno cercato i luoghi di produzione nel mondo dove i costi della manodopera erano più bassi: la Cina è stato l’hub produttivo più attrattivo e molti imprenditori hanno guardato a quel paese lontano per insediare loro aziende.
Oggi la globalizzazione, che non si può dire che sia finita, è in una fase di complicata ridefinizione, perché sulla stessa si è innestata anche la digitalizzazione, quel complesso di tecnologie digitali, utili a gestire in modo innovativo e sempre più spesso automatico i processi aziendali, al fine di rendere l’organizzazione produttiva sempre più efficiente.
La digital transformation, da non confondersi con la digitalizzazione, è un fenomeno molto più ampio che sta modificando l’economia, la società e le istituzioni, sfruttando la digitalizzazione come fenomeno abilitante.
Si direbbe che siamo nel secolo del capitalismo digitale che, da un lato, riduce i costi, consente di scalare il mercato globale, valorizza la dimensione “glocal”, interconnette la community, condividendo informazioni e mettendo in relazione cervelli provenienti da tante parti del mondo e tanto altro ancora e, dall’altro, fa emergere i rischi della trasparenza e dell’affidabilità delle piattaforme, così come della automazione senza regole e della disumanizzazione.
Di fronte a queste due facce di una stessa medaglia, la politica, che non deve temere il progresso, deve mettere in conto anche gli eventuali rischi e, soprattutto, prevenirli e governarli senza interrompere la spinta propulsiva delle tecnologie sulla società.
Secondo Lei, la politica deve riflettere su un possibile Umanesimo Digitale?
Guardi, a Ivrea mi sono spesa molto per lanciare una progettualità ambiziosa nelle aree Olivetti: ICO Valley, il primo Human Digital Hub, dove le persone sono centrali rispetto al progresso tecnologico. Questo è l’umanesimo digitale, un fenomeno che evidenzia che lo scopo più alto della tecnologia deve essere quello di migliorare la vita dell’uomo, senza fagocitarlo ma aiutandolo a essere più libero e mai schiavo. Perché ciò accada è fondamentale che il capitale umano, centrale in tutti i processi di crescita, sviluppo e innovazione sia costantemente aggiornato nelle sue conoscenze e competenze per poter governare saggiamente tutti i processi tecnologici sottesi alla digital transformation.
Per favorire la ripartenza dell’economia in Italia secondo lei, sarebbe giusto puntare anche sul Made in Italy e sul turismo? Cosa andrebbe valorizzato maggiormente?
Il 3 luglio 2018 presentai un DDL per istituire il Ministero del Made in Italy, non tanto per creare un’ennesima sovrastruttura, quanto piuttosto per valorizzare concretamente il terzo marchio più conosciuto al mondo dopo Coca-Cola e Visa. Made in Italy è un brand che ha un forte potere endogeno e che sintetizza perfettamente 4 concetti tipici della nostra penisola: bello, buono, ben fatto, bel vivere italiano. Il ministero sarebbe servito a razionalizzare una serie di attività sparse in diversi ministeri (almeno 4, ma forse di più) e a promuovere con i canali moderni attraverso una piattaforma del Made in Italy il turismo e il meglio dell’industria creativa italiana, intendendosi per questa, design, moda, arte, cultura, patrimonio ambientale, enogastronomia, artigianato e quant’altro l’Italia sa di poter vantare per far ripartire un vero e proprio “Rinascimento manifatturiero”.
Ha una idea anche per i piccoli borghi?
Credo di essere stata una delle poche persone che ha visto fin dal 2018 il potenziale dei piccoli borghi, che nel corso del XX secolo molte persone della mia generazione hanno abbandonato per andare a lavorare in città. L’avvento delle tecnologie ha dato a molti la possibilità di lavorare anche da queste aree interne dove la qualità della vita è sicuramente migliore e dove conciliare l’attività professionale con il tempo libero è sicuramente una delle ragioni principali che hanno spinto molte persone della mia generazione a lasciare la vita frenetica dei centri urbani per godere la bellezza della natura e l’umanità delle comunità legate ai loro territori e alle loro tradizioni.
Nelle città, soprattutto nelle zone centrali, dove i costi degli affitti, dei parcheggi, degli spostamenti stanno impoverendo sempre di più la classe media, molte famiglie stanno valutando di trasferirsi in comuni più piccoli per migliorare la qualità della vita e dare una diversa prospettiva ai loro figli, sempre meno sicuri di crescere e condividere amicizie in contesti urbani degradati e pericolosi.
I processi di innovazione urbana e riqualificazione del territorio in questa ottica divengono fondamentali. Su quali punti si dovrebbe insistere? E quali i vantaggi sia per i cittadini che per le comunità stesse?
Credo che i processi di rigenerazione urbana debbano essere centrali nella definizione delle politiche urbanistiche e di valorizzazione territoriale.
Nel XXI secolo la politica dovrà sempre più occuparsi di individuare misure di semplificazione e incentivi per recuperare l’immenso patrimonio immobiliare, in stato di abbandono, che rappresenta una ricchezza incredibilmente importante del nostro paese, per concretamente dare avvio a processi di rigenerazione di porzioni significative di territorio, sia urbano, sia rurale, che devono ritornare centrali nelle agende di sviluppo attraverso un virtuoso partenariato pubblico-privato. Penso invece che ancora si parla di nuove edificazioni senza volontà di recuperare numerosissimi immobili nelle grandi città, una volta affittati e oggi vuoti, ovvero di nuove costruzioni in contesti territoriali unici per bellezza culturale dei borghi, anziché di restauri e recuperi conservativi che conferirebbero al paesaggio circostante un fascino ineguagliabile e un potere turistico attrattivo.
Fonte foto: Facebook virginiatiraboschisenatore