I 230 emendamenti presentati in Aula hanno fatto slittare la tabella di marcia facendo sfumare il tentativo di licenziare la riforma della giustizia entro la fine della settimana scorsa. Il voto finale, infatti, è atteso per domani. In particolare, il rallentamento è stato determinato dall’improvviso dietrofront della maggioranza su quello che è uno dei punti centrali dell’accordo, raggiunto con fatica, sulla riforma: quello riguardante il sorteggio dei distretti di Corte d’Appello nella formazione dei collegi per l’elezione del CSM. All’esito dell’esame degli emendamenti, sul punto si è optato per un ritorno alla versione originaria della proposta Cartabia la quale prevedeva (e prevede) la determinazione dei collegi attraverso un decreto del ministero della Giustizia.
Negli ultimi giorni lo scontro di opinioni tra magistrati e parlamentari è sempre più forte: da una parte c’è chi denuncia la violazione della Carta Costituzionale attraverso una riforma che non avrebbe altro scopo se non quello di “creare” una magistratura longa manus della burocrazia, relegata allo svolgimento di un ruolo meramente impiegatizio e soggiogata al potere intimidatorio esercitato attraverso la valutazione delle pagelle; dall’altra, invece, c’è chi sostiene che la riforma, così come ideata, sia necessaria per rendere “più civile” la giustizia. Nella concitazione di questi giorni, tuttavia, quello che non andrebbe perso di vista è l’obiettivo principale della riforma che, in sostanza, sembra essere quello di ridisegnare la magistratura ordinaria come un organo giudiziario più efficiente.
Allora ben vengano tutti quegli emendamenti che si muovono verso questo scopo: riconquistare la fiducia dei cittadini verso una magistratura che ricopre un ruolo fondamentale nel nostro ordinamento, non solo perché rappresenta uno dei tre poteri dello Stato ma, soprattutto, perché attraverso la sua funzione si assicura uno dei servizi pubblici essenziali collocato al secondo posto dopo il servizio Sanità.
Strumenti come quello volto a bloccare le cc.dd. sliding doors – e cioè quel fenomeno per il quale i magistrati “escono” dal circuito giudiziario per ricoprire ruoli politici per poi tornare ad esercitare la funzione giurisdizionale – o come quello delle c.d. pagelle – volto a determinare una valutazione professionale dei magistrati – potrebbero essere il fiore all’occhiello di questa riforma. Guardare non più solo alla bravura del singolo magistrato ma anche al suo percorso formativo e alla sua capacità organizzativa non significa intimidire quanto più incentivare l’operato del singolo e del gruppo nell’ottica di un migliore, più efficiente e sinergico espletamento della funzione giurisdizionale. La conclusione dell’esame degli emendamenti ha portato con sé anche un’altra importante novità: il necessario (e doveroso, da Costituzione) rispetto della rappresentanza di genere tra i componenti laici del Csm.
In particolare, si è proceduto alla modifica dell’art. 30 della riforma del Csm che, richiamando espressamente gli artt. 3 e 51 della Carta Costituzionale, impone di dover scegliere i componenti da leggere dal Parlamento “nel rispetto della parità di genere”. La norma nasce per reagire e per contrastare quella che è una realtà di fatto quale quella del Csm in uscita, i cui componenti laici sono otto e sono tutti uomini. L’equilibrata presenza di uomini e di donne in posizioni decisionali dovrebbe ormai essere normale appannaggio di un Paese civile, necessaria per garantire una rappresentanza paritaria anche da un punto di vista ideologico, sociale e culturale.
Un sospiro di sollievo, almeno sotto questo profilo, per una riforma destinata ancora a far discutere.