È a dir poco sconcertante pensare che ancora nel 2022 ci si debba battere per l’equilibrio di genere. Ed è ancora più sconcertante pensare che da quel famoso 1946, anno in cui fu esteso il diritto di voto alle donne, considerato come il primo progresso verso la parità, siano passati anni senza che le due posizioni possano ritenersi pacificamente paritarie. La donna continua a ricoprire ruoli meno privilegiati rispetto a quelli dell’uomo, a subire un’inferiorità sul piano economico e civile ed è stata spesso esclusa da una serie di attività e di diritti per l’inferiorità fisica o per il suo ruolo di madre.
La scarsa incidenza di un quadro giuridico di parità formale è indice di un problema non solo normativo, ma anche culturale. In politica, in famiglia, nel lavoro, nella formazione e nei media persistono stereotipi sessisti che in maniera indiretta agiscono come potenti ostacoli alla piena realizzazione delle donne e in questo modo perpetuano le disuguaglianze e le asimmetrie. Non a caso, il superamento del gap gender costituisce il quinto obiettivo per lo Sviluppo Sostenibile dell’agenda 2030 dell’Onu, perché alle donne sia garantita parità di accesso all’istruzione, alle cure mediche e a un lavoro dignitoso.
Le donne nella magistratura
Anche nella magistratura sussiste un problema di equa rappresentanza per una questione anche qui culturale e di democrazia. Alle donne è stato vietato l’accesso alla magistratura fino al 1963, oggi costituiscono il 53,8 % del corpo giudiziario, ma solo il 20% è nel Consiglio superiore, l’organo che decide sulla vita professionale dei magistrati e sulle nomine dei dirigenti degli uffici giudiziari. Nei decenni di funzionamento del Csm, le donne hanno rappresentato in tutto il 5 % degli eletti.
Secondo le ultime statistiche messe a punto dal Csm, su 9.408 magistrati in organico, 4.900 sono donne, il 52 %, più della metà. Dei magistrati ordinari in tirocinio, su un totale di 666, 411 sono donne, quasi il 62%. Ciò significa non solo che le donne magistrato sono ormai più degli uomini e mediamente più giovani, ma soprattutto che il divario di genere è destinato a crescere. E come si traducono queste percentuali in termini di rappresentanza all’interno dell’organo di autogoverno della magistratura? I dati reali non sono consolanti. Una sola donna togata eletta nella consiliatura 2002-2006; quattro in quella 2006-2010; due in quella 2010-2014; una nella scorsa consiliatura e sei in questa attuale. Insomma, un sistema elettorale, quello introdotto con la riforma del 2002, che si è rivelato scarsamente incisivo e inadeguato.
La parità di genere, un diritto costituzionale
L’articolo 51, primo comma, della Costituzione, nel sancire il principio secondo il quale tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di uguaglianza, prevede che a tal fine la Repubblica promuova le pari opportunità tra donne e uomini. È la Costituzione, quindi, che sollecita l’impegno alla promozione fattiva delle pari opportunità, indicando una direzione pressoché “obbligata”, che impone di affrontare il problema del deficit della rappresentanza di genere nelle istituzioni democratiche. Quella della parità di genere è una battaglia anche politica, perché in gioco ci sono i valori stessi della democrazia partecipativa e l’avanzamento complessivo della società.
L’auspicata riforma elettorale del Csm
La proposta di legge presentata e discussa nella XVII legislatura in Commissione Giustizia, alla Camera dei deputati è stata elaborata dall’Associazione donne magistrato italiane (Admi) e voleva essere un segnale politico in questa direzione. Si prefiggeva di introdurre misure di riequilibrio di genere e antidiscriminatorie che consentissero di superare l’attuale situazione per la quale la componente femminile del Consiglio risulta in numero assolutamente inadeguato e rimessa a una sorta di occasionalità. Non giungeva a garantire direttamente il risultato di una presenza, ma intendeva ottenere un incremento della presenza femminile mediante il meccanismo della doppia preferenza di genere, già adottato e sperimentato nell’ambito della rappresentanza politica
La Corte costituzionale ha chiarito che quel particolare meccanismo non comprime la libertà dell’elettore, al contrario dà a chi vota una possibilità in più rispetto alla preferenza unica. Quella proposta di legge, avallata da autorevoli costituzionalisti e condivisa da tutti i gruppi parlamentari non è, però, mai giunta in Aula. Ora è in corso la Riforma della giustizia portata avanti a tappe forzate dalla Guardasigilli Cartabia. È auspicabile che sia finalmente l’occasione per una modifica organica e complessiva anche del sistema elettorale del Csm che garantisca all’elettore una maggiore libertà di scegliere, non solo con riferimento a un “gruppo” (le famose “correnti”), ma anche e soprattutto alle persone.