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La “Nuova Dottrina Monroe” nel contesto della strategia globale statunitense

sabato, 20 Dicembre 2025
5 minuti di lettura

Il saggio analizza il richiamo alla Dottrina Monroe nella National Security Strategy statunitense, interpretandolo non come segnale di declino o di ripiegamento isolazionista degli Stati Uniti, bensì come parte di una più ampia ricalibrazione strategica. L’autore critica le letture decliniste che vedono nella rinnovata enfasi sull’“emisfero occidentale” una rinuncia alla proiezione globale, sostenendo invece che le grandi potenze tendono a riformulare, e non ad abbandonare, i propri interessi fondamentali. Attraverso casi emblematici come Venezuela e Panama, il contributo mostra come la “Nuova Dottrina Monroe” sia funzionale soprattutto a contenere l’influenza di potenze extra-emisferiche, in particolare Cina e Russia, nel continente americano. Tale dottrina viene interpretata come complemento, e non alternativa, della tradizionale postura imperiale statunitense, coerente con una strategia talassocratica fondata sul controllo dei mari e dei principali chokepoints globali. Il testo evidenzia inoltre la duplice valenza interna e strategica di questa impostazione, rispondente sia ai vincoli dell’opinione pubblica sia alla competizione tra grandi potenze. L’analisi delle politiche recenti conferma la persistenza di una proiezione globale statunitense, seppur adattata a un contesto internazionale mutato. In conclusione, la “Nuova Dottrina Monroe” viene letta come espressione di un processo di adattamento strategico necessario, volto a preservare il ruolo centrale degli Stati Uniti nel sistema internazionale piuttosto che come indicatore di un loro declino strutturale.

Nel documento National Security Strategy la Dottrina Monroe viene esplicitamente richiamata nel concetto di “emisfero occidentale”, assumendo una rilevanza significativa sia sul piano politico-strategico sia su quello mediatico. Tale riferimento ha alimentato un diffuso dibattito, nel quale numerosi commentatori e analisti interpretano questa rinnovata centralità come un segnale del declino dell’impero statunitense e di un presunto ripiegamento degli Stati Uniti sul proprio emisfero. Questa lettura, sebbene comprensibile in ambito giornalistico, risulta problematica sul piano analitico, poiché tende a semplificare eccessivamente dinamiche geopolitiche di elevata complessità. La Geopolitica, riguarda la struttura , non va confusa con la filosofia politica che permea il dibattito e che è sovrastruttura. Come ricordava George Kennan, “le grandi potenze non abbandonano i propri interessi fondamentali: li riformulano”, un principio che invita a diffidare delle interpretazioni decliniste troppo lineari.

L’idea secondo cui gli Stati Uniti stiano progressivamente abbandonando la dimensione globale per concentrarsi esclusivamente sul continente americano appare, infatti, una rappresentazione parziale e imprecisa.

Questa Nuova Dottrina Monroe applicata la vediamo nel caso del Venezuela, il quale costituisce, in tal senso, un esempio emblematico assieme a Panama. Nonostante le ben note criticità del governo Maduro, incluse le dinamiche legate al narcotraffico e alla repressione politica interna, tali elementi non risultano essere i principali fattori determinanti della postura statunitense. Bisogna tenere presente che il Governo Maduro aveva di fatto aperto le proprie risorse alle imprese americane e tuttavia non è bastato a placare Washington. Al contrario, un ruolo decisivo è stato svolto dal rafforzamento dei rapporti strategici tra Caracas e Pechino, culminato in accordi di ampia portata economica e politica. Anche la tempistica degli avvenimenti rafforzerebbe questa ipotesi.

In questo quadro, il richiamo alla Dottrina Monroe assume un significato specifico: limitare la presenza e l’influenza di potenze extra-emisferiche, in particolare Cina e Russia, nel continente americano. Tuttavia, tale obiettivo non implica un disimpegno globale degli Stati Uniti. Piuttosto, esso si inserisce in una strategia più ampia volta a garantire il controllo dello spazio strategico primario statunitense, senza rinunciare alla proiezione di potenza in altre aree del sistema internazionale. Questa logica è coerente con il pensiero di Spykman e il dato segna una continuità strutturale dell’impero americano, pur all’interno di un contesto internazionale mutato.

Risulta pertanto più appropriato parlare di una “Nuova Dottrina Monroe”, intesa non come alternativa, bensì come complemento della tradizionale dottrina imperiale statunitense. Essa non sostituisce la postura imperiale, ma la integra. Gli Stati Uniti continuano a configurarsi come una superpotenza talassocratica, il cui potere si fonda in larga misura sul controllo dei mari e dei principali chokepoints (letteralmente punti di soffocamento) strategici, ossia gli stretti. Tale controllo consente a Washington di esercitare un ruolo centrale nella gestione e nella sicurezza del commercio globale, confermando la persistenza della sua egemonia marittima.

La Nuova Dottrina Monroe presenta inoltre una duplice valenza. Sul piano interno, essa risponde alle esigenze di un’opinione pubblica sempre più critica nei confronti di interventi militari prolungati, geograficamente distanti e poco comprensibili. Stephen Walt ha osservato che “le democrazie non tollerano guerre infinite”, e questo vincolo interno condiziona inevitabilmente la strategia americana. Sul piano strategico, essa mira a rafforzare la sicurezza del continente americano, riducendo al minimo le possibilità di penetrazione da parte di potenze rivali. In entrambi i casi, tuttavia, non si assiste a una rinuncia allo status di superpotenza, bensì a una sua riformulazione operativa. Come sintetizza John Mearsheimer, “le grandi potenze non cercano la quiete, ma la massimizzazione della sicurezza”.

L’analisi empirica delle politiche statunitensi recenti conferma questa interpretazione. Nel corso dei primi dodici mesi della presidenza Trump, gli Stati Uniti hanno manifestato interesse per l’acquisizione della Groenlandia, in funzione del controllo delle rotte artiche; hanno condotto operazioni militari contro gli Houthiper garantire la sicurezza dello stretto di Bal al Mandeb e quindi di Suez, nonostante una quota relativamente limitata dell’interscambio commerciale statunitense transiti attraverso tale via; hanno promosso iniziative diplomatiche in Asia centrale, inclusi tentativi di ristabilire una presenza militare nella regione; e hanno valutato la riapertura di basi in Afghanistan, area di rilevanza strategica nonostante l’assenza di un dispiegamento permanente. In ultimo l’ intervento in Iran. In Europa, infine, si osserva una razionalizzazione delle risorse militari in risposta alla competizione con la Cina, piuttosto che un vero e proprio disimpegno, con la sponda atlantica europea che continua a rivestire un’importanza strategica fondamentale. Come nota Zbigniew Brzezinski, “senza l’Europa, l’America non può essere una potenza globale”.

In conclusione, l’idea di una “fine dell’impero” statunitense appare priva di solidi fondamenti storici e analitici. La storia delle relazioni internazionali mostra come le potenze egemoni non abbandonino volontariamente la propria posizione, ma tendano piuttosto a ricalibrarne strumenti e modalità di esercizio. Paul Kennedy ricorda che “il declino non è mai un atto volontario”. Il contesto attuale va pertanto interpretato non come un declino strutturale degli Stati Uniti, bensì come una fase di adattamento strategico volta a preservarne il ruolo centrale nel sistema internazionale. Ovviamente siamo in presenza di un adattamento per necessità. La Cina costituisce una sfida di scala per gli USA soprattutto con l’ attuale assetto Sino russo, così come le nuove tecnologie militari impongono un ripensamento degli strumenti militari utili alla proiezione di potenza. Anche l’ economia rileva, ma come strumento di potenza non come fine. Sono tutti aspetti che determinano questo assestamento. Robert Kagan sintetizza efficacemente questa dinamica: “gli Stati Uniti non sono una potenza in ritirata; sono una potenza che si adatta”. Indubbiamente una serie di errori nelle ultime decadi hanno eroso parte dell’ egemonia assoluta USA, ma la politica estera americana continua ad essere guidata da logiche strutturali di potenza.

Paolo Falconio

Member of the Honorary Governing Council and Professor at the Society for International

Studies (SEI)

Bibliografia:

  • Brzezinski, Zbigniew. 1997. The Grand Chessboard. New York: Basic Books.
  • Kagan, Robert. 2018. The Jungle Grows Back. New York: Knopf.
  • Kennan, George F. 1951. American Diplomacy. Chicago: University of Chicago Press.
  • Kennedy, Paul. 1987. The Rise and Fall of the Great Powers. New York: Random House.
  • Mahan, Alfred Thayer. 1890. The Influence of Sea Powerupon History. Boston: Little, Brown.
  • Mearsheimer, John J. 2001. The Tragedy of Great PowerPolitics. New York: W.W. Norton.
  • Spykman, Nicholas J. 1942. America’s Strategy in World Politics. New York: Harcourt.
  • Walt, Stephen M. 2018. The Hell of Good Intentions. New York: Farrar, Straus and Giroux.
Paolo Falconio

Paolo Falconio

Membro del Consejo Rector de Honor e conferenziere de la Sociedad de Estudios Internacionales (SEI)

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