La decisione della Polonia di riavviare la produzione di mine antiuomo, sospesa da oltre vent’anni, segna una svolta che sta facendo discutere l’intera Europa. Varsavia presenta la mossa come una necessità strategica in un contesto di sicurezza radicalmente mutato dopo l’invasione russa dell’Ucraina, sostenendo che le nuove mine saranno “intelligenti”, conformi al diritto internazionale e progettate per autodisattivarsi. Ma il ritorno a un’arma simbolo dei conflitti più brutali del Novecento solleva interrogativi politici, morali e diplomatici. Il governo polacco insiste sul fatto che non si tratta di un abbandono del Trattato di Ottawa, che vieta l’uso e la produzione delle mine antiuomo tradizionali. Secondo Varsavia, i nuovi dispositivi rientrerebbero in una categoria diversa: sistemi di difesa controllati a distanza, attivabili e disattivabili da operatori militari, e quindi non classificabili come mine permanenti. Una distinzione tecnica che molti osservatori considerano fragile, temendo che possa aprire la strada a una reinterpretazione del trattato da parte di altri Paesi. La scelta arriva mentre la Polonia rafforza il proprio ruolo di frontiera orientale della NATO, investendo massicciamente in armamenti, infrastrutture e capacità di deterrenza. Per il governo, la produzione di mine è parte di una strategia più ampia per proteggere i confini e rallentare eventuali avanzate nemiche. Ma le organizzazioni umanitarie avvertono che, anche con sistemi “intelligenti”, il rischio per i civili resta elevato, soprattutto in caso di malfunzionamenti o abbandono sul campo. La reazione internazionale è stata immediata. Diverse capitali europee hanno espresso preoccupazione, temendo che la decisione possa indebolire uno dei trattati più riusciti in materia di disarmo. Varsavia, però, appare determinata: sostiene che la minaccia attuale richieda strumenti nuovi e che la tecnologia moderna permetta di conciliare sicurezza nazionale e rispetto delle norme internazionali.



