Dopo quaranta giorni di paralisi federale, il Senato degli Stati Uniti ha approvato un accordo che pone fine allo shutdown più lungo della storia americana. La svolta è arrivata grazie al voto di otto senatori democratici ribelli, che hanno deciso di schierarsi con la maggioranza repubblicana, rompendo la linea del partito e permettendo il superamento della soglia procedurale dei 60 voti. Il presidente USA, Donald Trump, ha salutato l’intesa come “una vittoria per il popolo americano contro l’ostruzionismo ideologico della sinistra”, sottolineando come il blocco fosse diventato “una forma di sabotaggio istituzionale”. L’accordo, che garantisce i finanziamenti fino al 30 gennaio, prevede il reintegro dei dipendenti federali sospesi e il pagamento degli stipendi arretrati. Ma il vero nodo politico è il cedimento del fronte democratico, che ha visto una frattura interna senza precedenti. I senatori dissidenti, tra cui nomi di peso come Joe Manchin e Kyrsten Sinema, hanno giustificato la loro scelta con la necessità di “ripristinare la funzionalità dello Stato e rispondere ai bisogni reali dei cittadini”. Trump, che aveva denunciato il blocco come una manovra per indebolire la sua amministrazione, ha ribadito che “la sinistra radicale ha fallito nel tentativo di tenere in ostaggio il Paese”. Il leader repubblicano al Senato, John Thune, ha parlato di “un momento storico in cui la responsabilità ha prevalso sulla propaganda”. La reazione dei vertici democratici è stata durissima: i senatori ribelli sono stati accusati di tradimento e di aver compromesso la strategia negoziale del partito. Ma per milioni di americani, il ritorno alla normalità è ciò che conta. Il traffico aereo, i sussidi alimentari e i servizi pubblici potranno finalmente riprendere, mentre il presidente Trump rafforza la sua immagine di leader capace di spezzare le impasse e riportare ordine.



