Diceva un mio vecchio professore di Inglese, che per hobby suonava il contrabbasso e mi introdusse al progressive rock che va dai King Crimson alla PFM, che i migliori musicisti in circolazione sono i jazzisti ma che quelli sono anche i più poveri in canna.
Avrei poi scoperto che aveva ragione: erano i migliori perché improvvisare richiede non solo la più ampia conoscenza della materia musicale possibile, ma anche una grande flessibilità in una jam session. Avrei anche scoperto che aveva ragione pure sul fatto che nonostante fossero i più bravi, i musicisti jazz erano mediamente i più poveri.
Più in generale, mi sarei fatto l’idea che questo discorso valga un po’ per tutte le professioni, ovvero che non esista una diretta correlazione tra preparazione, successo e, verosimilmente, ricchezza. La conseguenza di tutto ciò è che può essere fonte di grandi frustrazioni.
Eppure, essere preparati resta la cosa più importante. Per esempio, come italiano emigrato all’estero e non meno preparato di tanti altri è stato frustrante vedere associato il più delle volte al lemma “italiano” una smorfia ironica sul volto dell’interlocutore fino a quando non si fosse conquistato, sul campo, il rispetto. Questa cosa mi ha suggerito che esistono diversi livelli di improvvisazione: quella del jazz e quella, invece, che passa più comunemente come approssimazione.
Il problema sta tutto qui: molto spesso noi Italiani, fino a prova contraria, scontiamo questa cosa di essere percepiti come approssimativi. E questo ha una ricaduta enorme su un’altra categoria cognitiva che si chiama reputazione. La quale apre a un’altra categoria mentale, quella della fiducia, che a sua volta porta dritti dritti al tema dei temi ovvero la capacità di leadership.
Il fatto è che alla base di tutto occorre prepararsi, studiare, tanto, e occorrerebbe tenere a mente ogni tanto che così come non esistono pasti gratis, così non esistono scorciatoie. Le quali, se intraprese, non portano molto lontano.
Ne è un esempio il capo della nostra diplomazia, il cui CV tradisce platealmente una qualsivoglia preparazione in materia diplomatica, appunto. Confondere le categorie di lazzaretto con quella di untori può sembrare una cosa da poco, una inezia, ma non lo è.
La difficoltà che il più delle volte l’Italia incontra sul suo cammino oltralpe si chiama diffidenza: ma non perché siamo un lazzaretto (chi se ne frega se casa tua è un lebbrosario). Piuttosto l’architrave del discorso è: siamo sicuri che hai fatto tutto il necessario per mettere le cose a posto? Ovvero, posso fidarmi?
Infatti, se è vero che i panni sporchi si lavano in casa è altrettanto vero che il quadro di confusione emerso dalla gestione della pandemia non ha giocato a nostro favore. Vero, nessuno era preparato, ma la confusione sotto il cielo è stata molta. E la sigla finale a questo stato di cose è stata dichiarare che l’Italia non è un lazzaretto. Ma che c’azzecca?
Se uno dei padri nobili dell’Unione Europea e fondatore di questo giornale sosteneva che la politica è la più alta forma di carità ovvero di servizio alla comunità, ahinoi dovremo allargare il concetto di carità in direzione uguale e contraria ovvero quella che questa volta non va dal politico al popolo, ma quello che dal popolo va al politico proseguendo nostro malgrado, con impegno quotidiano al fronte, la battaglia per far passare il concetto che gli Italiani sono seri, preparati ed affidabili. Bravi jazzisti.