Questa incredibile e drammatica pandemia verrà ricordata da tutti anche perché è stata capace di mettere in discussione, in pochi giorni, la “narrazione” degli ultimi venti anni sul modello proposto di unità europea. Ed oggi in effetti fa riflettere, alla luce delle discussioni di questi ultimi mesi, il fatto che il motto scelto per rappresentare l’Unione fu “unita nella diversità”.
Sono passati solo tre mesi da quando, prima che il mondo entrasse in questa straordinaria fase della propria storia, l’Unione Europea era ancora considerata un’entità pura ed inattaccabile, senza difetto alcuno.
Quando il 5 aprile scorso il Financial Times pubblicava l’articolo “Is Europe losing Italy?”, il politico intervistato sul tema della reale utilità dell’Unione (sorprendentemente non l’agguerrito Matteo Salvini o la combattiva Giorgia Meloni) è stato Carlo Calenda, che solo lo scorso anno, proprio di questi tempi, concorreva alle elezioni in una lista, “Siamo Europei”, con un richiamo evocativo a valori ed appartenenza europeista.
La realtà dei fatti è che questa crisi ha acuito una spaccatura che era già fin troppo segnata all’interno dell’Unione. Una spaccatura che si gioca principalmente in campo economico, dove i “paesi rigoristi” hanno assunto il ruolo dei cattivi. L’approvazione da parte del Consiglio europeo di un fondo da 750 miliardi, di cui 500 in forma di sovvenzioni, ha suscitato grandi festeggiamenti, specie fra gli europeisti che hanno parlato di una svolta straordinaria. Di fatto, però, questa notizia, indubbiamente positiva, apre semplicemente le trattative fra i 27 paesi, con l’Olanda che ha già chiarito la distanza delle parti in questa trattativa: un ennesimo esempio di quanto differenti possono essere le visioni di Europa fra i vari componenti dell’Unione.
La stessa identica situazione di confusione è stata vissuta durante l’infinito dibattito riguardante il MES: uno strumento (che per primo Cipro utilizzerà, a partire da giugno) trasformato, agli occhi dell’opinione pubblica, in una trappola mortale che condizionerà per sempre la vita dei paesi che vi faranno ricorso. Andando a guardare la realtà, è semplice scoprire che si tratta di uno strumento, con pregi e difetti diversi, che ogni paese può decidere autonomamente se e come utilizzare. Eppure il dibattito politico italiano sul tema si è concentrato, da entrambe le parti, sul tentare di convincere i cittadini della bontà o malvagità assoluta dell’Unione e dei suoi strumenti.
La domanda implicita ma chiara nella testa di tutti è: come il debitore estinguerà la sua obbligazione? Cosa il creditore chiederà in contropartita a garanzia dell’adempimento? Quale trasferimento finale di ricchezza si realizzerà ed in favore di quali Paesi e quali ceti sociali? In fin dei conti ogni crisi mondiale ha portato con sé grandi cambiamenti economici e sociali, e questa sembra essere una di quelle che segnerà le differenze più che le uguaglianze: tra Paesi dell’UE; tra popoli; tra culture; tra classi sociali; tra generazioni. Domande e dubbi che non trovano nella politica risposte chiare, convincenti e rasserenanti.
Il problema sembra quindi essere a monte: un assetto istituzionale eccessivamente sbilanciato verso la Commissione rispetto al Parlamento rende quest’ultimo quasi inutile e l’opinione di determinati Paesi stabilisce le linee guida senza che gli altri possano impedirlo. In questo contesto i cittadini percepiscono i limiti imposti (tanti), ma non gli aspetti virtuosi, e si trovano (o si sono trovati fino allo scoppio del virus) tra i due fuochi di un europeismo assoluto (quello sì, da accettare senza condizioni) e di un sovranismo spesso risultato troppo distante dalla realtà (per essere percepito come un giusto bilanciamento in tempi di cambiamenti senza punti di caduta certi).
La debolezza politica dell’Europa è poi drammaticamente messa a nudo dalla vicenda fiscale. È difficile non pensare a FCA, che oggi richiede all’Italia un prestito da 6,6 miliardi di euro, ma che ha sede legale a Londra e sede fiscale ad Amsterdam. Quest’ultima, capitale del paese più avverso agli aiuti, abbraccia, insieme ad Irlanda, Cipro ed altri, le multinazionali in cerca di un paradiso fiscale nel vecchio continente. E non basta raccontare che il gruppo dà lavoro a migliaia di cittadini se poi da un lato non paga l’imposta regionale sulle attività produttive (come tutte le imprese in perdita) e dall’altro non pubblica il proprio bilancio consolidato, dal quale si potrebbe comprendere se (come l’azienda afferma!) effettivamente non vi sia stato spostamento di capitali fra il ramo italiano e la controllante olandese (il cosiddetto profit shifting).
Se all’interno dell’Unione non si è in grado di impostare in tempi relativamente brevi un piano di armonizzazione fiscale, allora sarà davvero necessario compiere una riflessione su cosa questa “Unione” sia diventata o diventerà: quali forze in campo e ideologie (se ve ne sono) avranno la meglio, dettando l’agenda politica o anche solo economica della futura Europa.
Uscendo dalla crisi sanitaria, ma entrando in una crisi produttiva (la domanda), occupazionale (il lavoro) ed economica (gli scambi), che sembra difficilmente evitabile, è dunque lecito chiedersi come l’Unione possa guardare avanti, a prescindere dagli strumenti speciali legati alla situazione presente.
I vincoli non bastano, ed anzi rischiano di risultare controproducenti, se non sono affiancati da scelte chiare in tema di politiche monetarie, fiscali ma anche e soprattutto di piani per rendere le imprese europee nuovamente competitive, senza che i paesi si facciano la guerra con il dumping fiscale.
Se si vorrà andare avanti servirà immaginare un nuovo assetto istituzionale, che restituisca valore alle preferenze dei cittadini e che definisca in modo chiaro le competenze eurounitarie e quelle nazionali. E forse, preso atto che non si è giocata solo una battaglia in campo economico, ma si è evidenziata una spaccatura fra gruppi di paesi, si dovrà avere il coraggio di porre una domanda più radicale: l’Unione Europea vuole davvero andare avanti? Oppure è destinata ad un rovinoso declino?
Alla crisi non è detto che debba seguire il declino. A una condizione, però: che l’Europa sappia riscoprire quel patrimonio comune, fatto di cultura, valori e storia, che davvero offre alle future generazioni europee buone ragioni per stare uniti: la domanda da porsi è dove può portare questo patrimonio comune e la strada da percorrere insieme tra popoli e generazioni, prima ancora della prospettiva di autoconservazione delle Istituzioni per come esse sono oggi.
Se questo patrimonio verrà davvero recuperato e posto al centro di un progetto di rinnovamento tra popoli e generazioni, l’Unione Europea potrà ritrovare la propria ragion d’essere e potrà allora davvero essere “unita nella diversità”.