Il referendum sulla riapertura della centrale nucleare di Ma’anshan, l’ultima attiva sull’isola di Taiwan, si è concluso con un nulla di fatto: nonostante il sostegno dell’opposizione, il voto non ha raggiunto la soglia minima di approvazione, fermandosi a 4,3 milioni di sì contro i 5 richiesti. La consultazione, promossa dal partito conservatore Kuomintang, mirava a riattivare il reattore chiuso tre mesi fa, in nome della sicurezza energetica nazionale. I promotori hanno sottolineato il rischio di un blocco cinese che potrebbe paralizzare le importazioni di energia, soprattutto in un Paese dove la domanda è in crescita esponenziale per via dell’industria dei semiconduttori. Il governo, guidato dal Partito Democratico Progressista, si è opposto alla riapertura, citando la mancanza di garanzie sulla sicurezza e l’assenza di soluzioni per lo smaltimento delle scorie. Il presidente Lai Ching-te ha dichiarato che “la sicurezza nucleare è una questione scientifica e non può essere risolta con un singolo voto”. Il dibattito pubblico è stato acceso: sei confronti televisivi hanno messo in luce le preoccupazioni legate alla posizione sismica della centrale e al trauma ancora vivo del disastro di Fukushima. I favorevoli, invece, hanno insistito sulla necessità di diversificare il mix energetico e ridurre la dipendenza dal gas naturale. Con il fallimento del referendum, Taiwan conferma la sua traiettoria verso un futuro senza nucleare, come previsto dal piano governativo del 2016. Ma il dibattito resta aperto, e la questione energetica si conferma uno dei nodi più delicati della politica taiwanese.
