Nel cuore della penisola coreana, il sogno di una riconciliazione sembra infrangersi ancora una volta contro il muro dell’intransigenza nordcoreana. Kim Yo Jong, sorella del leader Kim Jong Un e figura chiave del regime di Pyongyang, ha definito le recenti aperture diplomatiche del presidente sudcoreano Lee Jae-myung come “un sogno irrealizzabile”, spegnendo le speranze di un dialogo transfrontaliero senza precondizioni. La dichiarazione arriva a pochi giorni dalla rimozione degli altoparlanti di propaganda lungo il confine da parte di Seoul, un gesto simbolico volto ad allentare le tensioni. Ma Pyongyang ha risposto con freddezza, negando di aver fatto lo stesso e ribadendo di “non avere intenzione di migliorare le relazioni”. Il presidente Lee, eletto a giugno, ha promesso di perseguire la pace “a qualunque costo”, cercando di voltare pagina rispetto alla linea dura del suo predecessore. Tuttavia, la Corea del Nord continua a considerare ogni gesto di distensione come una provocazione mascherata, soprattutto in vista delle esercitazioni militari congiunte tra Stati Uniti e Corea del Sud, che Pyongyang ha definito “una minaccia reale” e “una provocazione militare diretta”. Dietro le quinte, la tensione resta alta. I due paesi sono tecnicamente ancora in guerra, poiché il conflitto del 1950-1953 si è concluso con un armistizio, non con un trattato di pace. E mentre Seoul tenta di riaprire i canali di comunicazione, il Nord alza il tono, rivendicando il “diritto all’autodifesa” e minacciando “contromisure risolute”. In questo clima, le proposte di pace del Sud sembrano destinate a rimanere lettera morta. Ma la storia della penisola coreana insegna che anche i sogni più irrealizzabili, a volte, trovano spazio nella diplomazia.