Il termine violenza ostetrica descrive un ampio spettro di comportamenti e pratiche mediche da parte di ostetriche, medici o infermieri, che violano i diritti delle donne, causando danni fisici o emotivi. Si tratta di procedure mediche non consensuali, come episiotomie, induzioni o cesarei senza un consenso informato; negligenza o abbandono durante il travaglio; commenti umilianti o denigratori da parte del personale sanitario; imposizione di posizioni durante il parto senza tenere conto delle preferenze della donna; trattamento impersonale e meccanico, che nega alla donna la possibilità di vivere il parto come un’esperienza umana e personale; uso eccessivo di interventi medici quando non strettamente necessari; separazione non giustificata madre-neonato dopo il parto. Forme di abuso fisico, psicologico o verbale che può verificarsi durante la gravidanza, il parto e il post-partum.
Sono molte le testimonianze di donne che denunciano abusi e trattamenti umilianti durante il parto eppure la questione fatica ad entrare nelle agende politiche, forse anche perché per molti si tratterebbe solo di una percezione soggettiva e non un problema strutturale. È una questione dibattuta, ma poco riconosciuta dal punto di vista legale. Sul piano internazionale nel 2019 il Consiglio d’Europa ha approvato la Risoluzione n. 2306, includendo la violenza ostetrica tra le forme di violenza contro le donne nel quadro della Convenzione di Istanbul, mentre alcuni stati dell’America Latina, come il Venezuela e l’Argentina, l’hanno già inclusa nelle loro leggi. In Italia, invece, non è ancora riconosciuta come reato specifico nel codice penale. Abbiamo chiesto di aiutarci a fare chiarezza su cosa può fare e su cosa sta facendo il Parlamento su questo fronte alla Senatrice Alessandra Maiorino, Membro della “Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio, nonché su ogni forma di violenza di genere”, molto impegnata su temi cruciali come i diritti delle donne e l’educazione al rispetto.
Senatrice, è difficile definire che cos’è violenza ostetrica. Secondo la sua idea, come la potremmo definire? Ma, soprattutto, quali sono le circostanze che una donna può riconoscere come una lesione dei propri diritti e magari cominciare a denunciare?

Davvero se ne parla pochissimo, è quasi un tabù. Sembra assurdo parlare di violenza ostetrica, io ne sentii parlare la prima volta nel 2009, da parte della ginecologa Lisa Canitano, presidente dell’Associazione Vita di Donna Onlus e l’ostetrica Gabriella Pacini, presidente dell’associazione Freedomfor Birth-RAG, entrambe attiviste proprio per i diritti delle donne, in particolare delle partorienti. Ma dopo da allora la politica se ne è occupata veramente poco.
Purtroppo c’è un fenomeno diffuso, diciamo, di normalizzazione della violenza, per cui le donne non riescono neanche a riconoscerla. Si dà per scontato che debba essere così, che si debba essere trattate in questo modo, che le procedure debbano essere quelle. Invece a volte proprio le procedure più normali sono in realtà delle procedure anche di violenza, che avvengono all’interno degli ospedali e delle strutture sanitarie, perché è stato normalizzato un certo modo di concepire il parto, la gravidanza e la donna in gravidanza, ma che non rispettano invece i diritti, se non anche la salute, della futura mamma.
Quindi lei riconosce che anche in Italia esiste un problema di questo tipo?
Assolutamente sì. In Italia esiste molto, proprio perché se ne parla poco. E quindi, ripeto, molte donne non capiscono neanche di trovarsi in una condizione sbagliata, cioè che potrebbero vivere in una situazione molto migliore, affrontare il parto con maggior serenità e non farsi dettare i tempi, i modi, non informate, per cui alla fine ci si deve adattare a quello che viene stabilito a priori.
Se ne parla poco, un po’ perché non si vorrebbe urtare la suscettibilità del personale sanitario, che forse è già abbastanza provato da altre difficoltà, ma anche perché viene avvertito come un fatto soggettivo, una percezione personale. In Parlamento ne ha parlato nel 2016 l’onorevole Adriano Zaccagnini con una proposta di legge, che però non ha mai visto la luce. Secondo lei perché non riesce a entrare nell’agenda politica?
Probabilmente perché trattandosi di un tema che perviene ai medici, alle ostetriche, al personale sanitario, è un campo nel quale le interferenze non sono molto gradite. A ciò si aggiunge il fatto che scardinare abitudini, prassi e pratiche che sono all’ordine del giorno è molto, molto complicato. Occorrerebbe una maggiore informazione, sensibilizzazione delle donne, ma anche della comunità sanitaria.
Penso che la politica possa e debba prendersi in carico anche questo tema, anche se è molto difficile, perché c’è molta diffidenza anche da parte delle stesse donne, io vedo che a parlarne sembra un’esagerazione.
Vogliamo fare qualche esempio concreto di comportamento lesivo dei diritti delle donne, perché le donne possano riconoscerlo e semmai anche difendersi?
Ce ne sono tanti e dipende da caso a caso. Lo stesso parto cesareo, chissà se tutti i parti cesari sono davvero necessari. Purtroppo sappiamo che molto spesso non lo sono. Negli ultimi anni la frequenza del parto cesareo è molto aumentata in Italia: si è passati da 11,2% nel 1980 al 31,2% del 2021. Questo valore risulta molto più elevato rispetto a quello degli altri Paesi europei e del 10-15% rispetto a quanto raccomandato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità.
La stessa posizione del parto è una posizione che non sarebbe quella naturale, ma che è stata raggiunta quando è subentrata una forma di medicina più tradizionale. In natura la donna partorirebbe in altre posizioni, in altre condizioni, invece viene messa stesa supina con una possibilità di spinta molto inferiore, la possibile riduzione dell’ossigenazione placentare, con conseguente maggiore rischio di problemi nella frequenza cardiaca fetale e una sensazione di dolore aumentata durante le contrazioni. Questa medicalizzazione e burocratizzazione del momento del parto è stata utile in passato, perché ha consentito di andare avanti, però forse è diventata un po’ troppo egemonica rispetto ad altre opzioni.
Comunque non si riesce a ottenere un riconoscimento giuridico e introdurlo nel nostro ordinamento come fattispecie di reato, ma rientra in altri reati come la violenza personale o l’abuso sessuale, che insomma poco hanno a che spartire in realtà con il discorso che stiamo facendo. Secondo lei il Parlamento farà qualcosa, tenuto anche conto della Risoluzione del 2019 approvata dal Consiglio d’Europa?
Su questo noi possiamo impegnarci.
Comunque in questo momento che lei sappia non c’è niente in programma?
Che io sappia non c’è nulla, no.
Parliamo del “parto positivo”, riconosciuto dall’OMS e dalle linee guida del United Nations Population Fund (UNFPA), che prevede tra l’altro che la donna sia informata, possa decidere su ogni intervento e scegliere come partorire, compreso il parto “non naturale”, cioè di optare volontariamente per un cesareo. Lei lo inserirebbe nel Sistema Sanitario Nazionale come diritto universale?
Certo. Il parto positivo è la possibilità di scelta, è un’autodeterminazione. Mi sembra che la scelta dal trattamento esista già per i pazienti. Come dicevo il cesareo viene per forza amministrato e non sappiamo se è sempre necessario, mentre una donna non può sceglierlo.
E nel frattempo che il Parlamento faccia qualcosa, dove si può agire? Sulla formazione sanitaria?
Certo, sulla formazione, ma anche sulla consapevolizzazione delle donne attraverso campagne di informazione e di sensibilizzazione.