venerdì, 22 Novembre, 2024
Attualità

Giù le mani dai magistrati di sorveglianza

Le polemiche relative ad alcune “scarcerazioni” facili hanno riattivato lo scontro tra politica e magistratura. Mentre al Ministero della Giustizia, dopo il corto circuito ai vertici del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, si cerca di studiare misure ad hoc, c’è chi come Giuseppe Cioffi – magistrato di lungo corso attualmente in servizio presso il Tribunale di Napoli Nord, tra i primi in Italia ad occuparsi delle cd. “ecomafie” nel territorio che sarà poi definito Terra dei fuochi, già consulente della Commissione parlamentare antimafia – invita al rispetto dei ruoli e a non svilire la funzione dei magistrati di sorveglianza che maturano una esperienza ed una sensibilità sul campo ed hanno modo di conoscere il percorso carcerario che compie ogni singolo detenuto.

Ecco come ha risposto alle domande de “la Discussione”.

Il Giudice Giuseppe Cioffi

Continua a tenere banco la vicenda delle cosiddette “scarcerazioni facili”. Lei, da magistrato con tanti anni di carriera nella giurisdizione penale, come giudica le varie posizioni in campo?
“Il clamore è scaturito da due/tre posizioni particolari di detenuti al regime del 41 bis, la cui sottoposizione, come è noto, è a cura del Ministero, nel senso che il provvedimento in questione è valutato e stabilito dal Guardasigilli e i giudici di sorveglianza non fanno altro che, con la loro particolare sensibilità, prendere atto e gestire queste posizioni all’interno delle strutture carcerarie”.

Possiamo dire che qualcosa non ha funzionato?
“I casi emersi riguardano detenuti non ergastolani; molti sottoposti a procedimenti ancora in corso le cui condizioni di salute, alla luce di quanto emerso, non potevano essere tutelate nelle strutture di detenzione. Qui non si tratta di garantismo esasperato ma di senso di umanità a cui tante volte l’Italia è stata richiamata dalle Corti sovranazionali. Ricordiamo che Papa Francesco l’anno scorso ha invocato una maggiore umanizzazione della pena senza alzare il polverone cui abbiamo assistito nei giorni scorsi”.

Tutto questo però genera un allarme sociale difficile da controllare?
“Ecco questo è un tema fondamentale. Spesso chi parla di questi temi in tv, conduttori, giornalisti e opinionisti, non ha contezza della realtà così come appare a chi invece la vive tutti i giorni. E questa esasperazione degli animi rende ancora più faticoso il già difficile momento che stiamo vivendo in cui siamo tutti più vulnerabili rispetto al clamore montato da informazioni imprecise. Ciò detto, dobbiamo innanzi tutto precisare che non ci sono state remissioni in libertà, come farebbero credere i toni adoperati da certuni, ma i detenuti di cui si è tanto parlato sono stati collocati in detenzione domiciliare, non solo per ragioni di salute ma la grandissima parte perché prossimi al fine pena e non avendo imputazioni ostative. E, comunque, non si tratta di ergastolani o persone imputati di reati di omicidio o fatti gravissimi, seppure molti sono stati considerati ad alta sicurezza per implicazioni in fatti di mafia. Mi viene in mente quello che accadde nel 1996”.

Si riferisce alla proposta legislativa che fu all’epoca presentata in materia carceraria e che provocò un’autentica sollevazione?
“Ci fu chi scrisse che ci sarebbero state scarcerazioni di massa. La pressione mediatica fu così elevata che i firmatari della legge si affrettarono a fare marcia indietro. Di lì a poco venne fuori che solo un numero esiguo di detenuti comuni aveva riconquistato la libertà. E, comunque, di lì a poco avrebbero terminato l’espiazione della pena. Ecco cosa significa creare allarmismi ingiustificati”.

Ciò nonostante, il ministero sta valutando di intervenire per correggere il tiro…
“Senza entrare nel merito, bisogna stare molto attenti a non svilire il ruolo e la funzione dei giudici di sorveglianza, i quali devono poter decidere liberamente sulla scorta della particolare esperienza, sensibilità e cultura specifica maturata sul campo e sulla conoscenza del percorso carcerario che compie ogni singolo detenuto. Questo è il lavoro che sono chiamati a svolgere”.

Cosa dovrebbe fare la politica se davvero volesse aiutare i magistrati e, più in generale, la giustizia?
“Predisporre investimenti in strutture, mezzi e risorse per consentire ai giudici di adempiere ai propri doveri con professionalità e decoro. Se tutti tornassero al ruolo che la Costituzione assegna a ciascuno ne avremmo tutti giovamento”.

In conclusione, tornando al tema carcere: è opportuno rivedere il sistema?
“Certamente sì. Lo affermo anche sulla scorta della esperienza maturata in ambito internazionale. Grazie alla mia collaborazione con la Commissione parlamentare antimafia ho avuto modo di conoscere e studiare le carceri in Belgio, Olanda, Germania e Austria. Lì, innanzitutto, il segmento dei detenuti in attesa di giudizio è assai esiguo. Il condannato sconta la pena in condizioni che, rispetto a quelle di penitenziari come Napoli, Roma, Milano o Palermo, sembrano quasi di lusso, ma in quei paesi viene garantita l’effettività della pena. E poi tutti concorrono con il lavoro alla compensazione dei costi che la società si sobbarca per la loro permanenza in cella”.

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