lunedì, 10 Marzo, 2025
Libri

Il passato non muore mai. Le nuove indagini dell’ispettore Tarascio

È uscito il secondo romanzo poliziesco di Bruno Poggi, docente di ebraismo e cultura ebraica, che sceglie questo appassionante genere letterario per promuovere la conoscenza di una cultura millenaria come quella del popolo di Sion. Il 13 marzo prossimo sarà presentato a Roma, nella Biblioteca Guglielmo Marconi. Ne parliamo in anteprima con l’autore

Professor Poggi, lei era già autore di saggi sulla cultura ebraica, ma ha scelto di cimentarsi anche con un genere più di evasione come i romanzi gialli, perché, secondo lei, la si conosce troppo poco e forse per questo sopravvivono ancora troppi pregiudizi. Cosa in particolare vorrebbe promuovere e diffondere nella opinione pubblica e quali pregiudizi vorrebbe rimuovere?

Il professor Bruno Poggi, autore del romanzo
Il professor Bruno Poggi, autore del romanzo

Non c’è un pregiudizio in particolare che vorrei rimuovere. È un fatto che il mondo ebraico, pur essendo presente da più di venti secoli in Italia, soprattutto a Roma, non è conosciuto nei suoi vari aspetti dal resto della popolazione italiana. Spesso veniamo confusi con gli israeliani, mentre invece gli ebrei italiani sono, appunto, italiani. La scarsa familiarità e conoscenza dei nostri usi, costumi e tradizioni fa sì che i pregiudizi di coloro che diffondono in malafede l’antisemitismo si radichino più facilmente. Naturalmente coloro che, più e prima di tutti, devono contribuire alla diffusione del della cultura ebraica siamo proprio noi ebrei. È quello che mi propongo di fare col mio lavoro e, nel caso specifico, con i miei romanzi.

In questo secondo romanzo, il caso che l’ispettore Tarascio deve risolvere in realtà si innesta in un giallo ancora più grande come l’omicidio dell’onorevole Moro, come mai questa scelta così impegnativa?

La copertina del libro
La copertina del libro

Mi interessava creare un doppio mistero e, nel contempo, affrontare il tema della memoria. Per noi ebrei la memoria è un fattore importantissimo, ma dovrebbe esserlo per chiunque. Spesso si dice, ed è vero, che i tedeschi e i francesi, prima di essere di destra o di sinistra, sono tedeschi e francesi. La stessa cosa non si può dire degli italiani e questo perché, a mio parere, in Italia manca una memoria condivisa. Gli eventi storici che hanno attraversato e anche dilaniato il nostro Paese vengono spesso affrontati in chiavi ideologica, sia da destra che da sinistra, cercando di piegare gli avvenimenti accaduti in uno schema interpretativo che non mira a cercare la verità, quanto ad affermare una propria presunta identità screditando gli avversari politici. Il caso Moro, che è citato nel mio romanzo, credo sia il più fulgido esempio di questo atteggiamento. Una Commissione parlamentare d’inchiesta ha suggerito una nuova chiave interpretativa di questa vicenda, corredandola di testimonianze, perizie e riscontri probatori, eppure il mondo della politica ha fatto finta di nulla. Ma questa omissione non è un bene perché, come dice il titolo del romanzo, “il passato non muore mai” e ritorna presentando il suo conto. Vorrei, comunque, rassicurare i lettori: il mio romanzo non è una rivisitazione del caso Moro. Piuttosto, quest’ultimo, sta all’interno di un mistero ancora più grande.

Leggendo il libro ho avuto l’impressione che ci fosse qualche richiamo autobiografico. In particolare, un personaggio, il professor Luzzati, che in parte adombra lo stesso Tarascio, sembra ispirarsi alla sua vita, è così?

Non direttamente. Credo che quando si scrive un romanzo si mette al suo interno quello che uno ha letto, quello che uno ha visto e le esperienze che ha vissuto. Ma tutto questo viene filtrato all’interno della narrazione. I libri parlano sempre di altri libri e ogni storia racconta una storia già raccontata. Lo sapeva Omero, lo sapeva Ariosto, per non dire di Rabelais o di Cervantes. Voglio dire che, mutatis mutandis, c’è un po’ di me in Luzzati, nel commissario Tarascio e anche in altri personaggi del romanzo.

Tra i vari richiami alla lingua e alle tradizione ebraica è molto presente la cucina kāshēr. Come mai? Che peso ha nella vita di un osservante e da dove nascono le regole base, come quella non mischiare la carne e il latte?

L’ebraismo è una religione pratica a differenza del cattolicesimo, che è una religione dogmatica. Quindi l’essenza dell’ebraismo sta nelle cose che si devono fare o che non si devono fare ogni giorno. In quest’ottica il cibo, la cucina kāshēr, è indubbiamente una parte fondamentale dell’essere ebrei. Inoltre, Luzzati, il co-protagonista, è un’amante dell’arte culinaria. Anche in questo c’è sia un po’ di me sia dell’influenza letteraria di Philo Vance, il protagonista dei gialli di S.S. van Dine. Quanto al divieto di mescolare carne e latte non vi è, nonostante siano state avanzate dagli studiosi numerose chiavi interpretative di questa norma, una spiegazione univoca e razionale. Nella Torah (quello che per i cristiani è l’Antico Testamento) c’è scritto, per ben tre volte: “Non cucinerai il capretto nel latte di tua madre”. E noi ebrei ci atteniamo a questo precetto.

Non voglio “spoilerare” niente dell’intrigo, ma è impossibile non lasciarsi incuriosire dalla evocazione storica del “Grande vecchio”, il burattinaio che ha gestito le maggiori decisioni negli anni di Piombo e non solo. Chi è secondo lei nella realtà, si è fatto una idea?

No, un’idea precisa non me la sono fatta. Sono, però, convinto che gli avvenimenti che hanno insanguinato l’Italia tra la fine degli Anni ‘60 e la fine degli Anni ‘70 siano stati frutto di una regia sapiente, che mirava a orientare le scelte politiche del nostro Paese. D’altronde è un fatto che ci fosse la guerra fredda e che esisteva un equilibrio che non poteva essere infranto. Su questo aspetto abbiamo già molti riscontri storici. E, quindi, è il dubbio che esistesse un “Grande Vecchio”, cioè qualcuno che tirasse i fili, con la complicità e sostegno di pezzi dello Stato ed espressioni di poteri forti, è, secondo me, molto fondato.

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