Negli ultimi anni la crescita dell’occupazione femminile ha riguardato soprattutto le professioni tradizionalmente già a prevalenza femminile: badanti, impiegate, addette alle pulizie. Si è andata, quindi, accentuando la cosiddetta segregazione orizzontale di genere. È quanto sottolinea il Rapporto Cnel-Istat ‘Il lavoro delle donne tra ostacoli e opportunità’. Tra il 2008 e il 2023 si evidenzia un rafforzamento della presenza delle donne nelle professioni relativamente più femminilizzate soprattutto in riferimento al personale non qualificato nelle attività domestiche, ricreative e culturali, tra cui le collaboratrici domestiche. Il fenomeno di segregazione si rileva poi nelle professioni qualificate dei servizi, per il gruppo dei docenti, degli impiegati di ufficio e del personale a contatto diretto con la clientela. Un’inversione di tendenza, si osserva invece tra i dirigenti della Pubblica amministrazione e tra i medici, professioni tradizionalmente a maggioranza maschile, dove si registra un aumento delle donne. Circa la metà dell’occupazione femminile – si legge nel Rapporto – risulta concentrata in sole 21 professioni, mentre per gli uomini in 53. Tra le professioni più frequenti nella componente femminile troviamo le addette agli affari generali e segretarie, le commesse, le badanti, le colf, le infermiere e le operatrici sociosanitarie, le addette ai servizi di pulizia e le maestre di scuola primaria. Tra le professioni specialistico/intellettuali, troviamo esclusivamente quelle legate all’ambito della formazione. In generale, rispetto al panorama dell’occupazione femminile, quello maschile risulta molto più variegato.
Tra gli occupati nelle professioni di area Stem (scienza, tecnologia, ingegneria e matematica) solo un quinto – sottolinea il Rapporto Cnel-Istat – è rappresentato dalle donne (19,1%), con un maggiore spazio fra gli specialisti in scienze matematiche, chimiche fisiche e naturali (un terzo degli occupati), tra ingegneri e architetti (23,6%), e un peso ancora meno rilevante fra gli specialisti in scienze informatiche e tecnologiche (Ict al 17,8%) e fra le professioni tecniche in ambito Stem (17,0%). Lontanissime dall’area della parità anche le generazioni più giovani, sebbene la quota di donne 25-39enni impiegate in area Stem sia di quasi 10 punti più elevata che nella generazione 55-69 anni (22,3% a fronte del 13,2%).
Segregazione verticale ancora rilevante
L’Italia è uno dei pochi paesi con il Presidente del Consiglio donna. Tuttavia, nel complesso, la segregazione verticale – aggiunge il Rapporto – rimane ancora una realtà molto rilevante. È il cosiddetto soffitto di cristallo, che blocca o comunque frena la crescita professionale delle donne. Le parlamentari donna sono in Italia il 33,6%, in linea con la media Ue27 del 33,2%, ma lontano dai Paesi nordici, come Islanda, Finlandia e Svezia, che sono in testa alla classifica europea e vicini a una condizione di perfetto equilibrio con valori tra il 46 e il 47%. Siamo distanti anche da altri paesi mediterranei: in Spagna la presenza parlamentare femminile raggiunge il 43,4%. Su livelli ancora più bassi la presenza femminile nelle funzioni governative: 29,7% a fronte del 35,2% della media Ue27 e di Paesi come Finlandia, Belgio e Paesi Bassi in cui le donne al governo rappresentano la quota maggioritaria, con valori rispettivamente del 72,4%, 55% e del 53,6%. Guardando alla politica locale, la presenza femminile – prosegue il Rapporto – è ancora più contenuta rispetto al livello nazionale ed è più evidente il ritardo con il resto dell’Europa. La quota di donne elette nei consigli regionali si ferma nel 2023 al 24,5%, collocando il nostro Paese a più di 10 punti di distanza dalla media europea (35,7%) e al 13° posto nella graduatoria dei 19 paesi europei per cui si dispone di questo dato. A ottobre 2024 dei 19 presidenti di Regione solo uno è donna. Tra i sindaci la rappresentanza femminile si ferma al 15,4%: solo due dei 20 comuni capoluogo hanno sindaci donna. Nessuna donna invece è a guida di una delle 9 città metropolitane, dove anche tra i consiglieri la presenza femminile scende al 30,6%.
Se tra i magistrati – aggiunge la ricerca – ordinari le donne rappresentano la maggioranza (58,6%), e tra i magistrati con ruoli semidirettivi la composizione di genere si aggira intorno all’area della perfetta parità (con il 46,4% di donne), le cose cambiano, e di molto, tra i magistrati con ruoli direttivi, dove le donne si fermano al 28,8%. Stesso discorso nel settore Sanità: le donne rappresentano oltre la metà dei dirigenti medici che operano nel Servizio Sanitario nazionale (56%), ma la presenza femminile cala al 38% in presenza di un incarico di struttura semplice e si riduce al 21% nel caso di incarico di struttura complessa (ex primari).
Solo il 2,9% tra amministratori delegati delle grandi società quotata in borsa
Sebbene si sia consolidato l’equilibrio di genere nei consigli di amministrazione delle società quotate in borsa (la presenza femminile si attesta sul 43,1% a fronte di un valore europeo del 34,2%), le statistiche – come indica il Rapporto – dipingono un quadro tristemente chiaro: le donne continuano ad essere ampiamente sottorappresentate nelle posizioni di leadership aziendale. E ciò nonostante diversi studi dimostrino i vantaggi anche finanziari di una guida femminile. Restando sulle grandi società quotata in Borsa in Italia solo il 2,9% degli amministratori delegati è donna a fronte di una media Ue27 del 7,8%, del 21,1% della Lituania (che guida la classifica) e, per fare un altro esempio, dell’8,3% della Francia. Le disparità restano enormi anche se si guarda ai direttori d’azienda. L’Italia – evidenzia il Rapporto – si colloca nelle posizioni di coda della graduatoria dei Paesi Ue con il 15,6% dei dirigenti donna, a considerevole distanza dalla media UE27 del 22,7%, ma soprattutto da Paesi come la Lettonia o la Francia, in cui le donne che guidano un’impresa quotata in borsa rappresentano rispettivamente il 32,1% e il 29,9%. Infine, nel 2024, nessuna donna ricopre il ruolo di governatrice di una delle banche centrali europee.
Quasi 7 imprese su 10 sono di proprietà maschile. Quelle paritarie, in cui la proprietà è equamente divisa tra uomini e donne, rappresentano – spiega il Rapporto CNEL-ISTAT – una componente del tutto residuale, pari all’1,6%. Le imprese femminili sono mediamente più giovani di quelle maschili: il 41,6% ha al massimo 5 anni di vita, a fronte del 34% delle imprese maschili. La differenza resta di 5 punti percentuali anche tra le neo-nate, fino a 2 anni di vita: rispettivamente 25% e 20%. Al contrario, hanno più di venti anni il 21,0% delle femminili contro il 29,1% delle imprese maschili.
Nel comparto industria è a guida femminile meno di un’impresa su cinque
Guardando ai settori di attività economica, meno di un’impresa su cinque del comparto Industria (19,2%) è a guida femminile. Si arriva a un terzo delle imprese nel comparto dei Servizi (33,2%). Decisamente contenuta – aggiunge l’indagine – la presenza nel settore delle Costruzioni (6,6%), che si conferma a forte caratterizzazione maschile. Forte diversificazione nell’ambito manifatturiero, con una presenza di imprese femminili che si colloca in media sul 19,4%, ma che raggiunge il 27,9% nel settore alimentare, supera il 30% nel tessile e nella fabbricazione di articoli in pelle e arriva al 50% nella classe Confezione di articoli di abbigliamento, pelli e pellicce. Imprese femminili più numerose solo nelle Altre attività di servizi (57,9%). Si collocano nell’area della parità le imprese nei settori Sanità e Assistenza sociale e Istruzione. Meno equilibrata la composizione per genere negli altri settori dei Servizi, che restano comunque più bilanciati rispetto al comparto Industria e Costruzioni. Forte caratterizzazione di genere degli occupati alle dipendenze degli imprenditori: il 50,3% del personale dipendente nelle imprese femminili (con dipendenti) è di sesso femminile, a fronte del 38,1% del personale delle imprese di proprietà maschile. Tranne che nelle Costruzioni, ciò avviene trasversalmente ai settori di attività economica. La maggiore quota di dipendenti donna nelle imprese femminili – precisa il Rapporto CNEL-ISTAT – si osserva sia nel comparto manifatturiero, con una differenza di 7 punti percentuali (34,4% contro il 27,3% delle imprese maschili), sia nel settore di Fornitura di energia elettrica, gas, vapore e aria condizionata, dove la differenza sale a 10 punti percentuali (33,8% vs 23,4%), fino a superare i 28 punti nel settore Altre attività di servizi, dove la componente femminile dell’occupazione raggiunge l’83,4% nelle imprese guidate da donne e il 55,3% in quelle maschili.
Tra i circa 5 milioni di imprenditori che operano in Italia, circa 1 milione e 500 mila sono donne (30,3%), con una crescita rispetto tra il 2015 e il 2022 di oltre 100mila unità (+1,2 punti percentuali). Grazie ad una più cospicua componente under35, le imprenditrici – evidenzia il Rapporto – sono mediamente più giovani dei loro colleghi: hanno un’età media di 49 anni a fronte dei 52 dei loro colleghi maschi. La maggiore presenza di giovani tra le imprenditrici contribuisce ad attenuare, senza cancellarlo, il forte squilibrio di genere. Nella classe di 50 anni e più le donne rappresentano il 26,8% del complesso degli imprenditori.