domenica, 17 Novembre, 2024
Attualità

Francesca di Matteo, una giornalista a Manhattan. Dal premio Ischia all’isola newyorkese

Le numerose iniziative messe in campo a supporto della comunità italoamericana, e l’impegno verso le tradizioni dei Paesi di origine

Francesca di Matteo, giornalista di inchiesta e di cronaca nera – tra i crimini nazionali si è occupata del caso di Yara Gambirasio tanto da essere presente con una sua intervista esclusiva anche nella nuova serie tv che sta spopolando ora su Netflix. Volto dei telegiornali di Mediaset, traduttrice, da 7 anni, Francesca Di Matteo vive a New York, dove ha dato vita a diverse realtà di promozione dei brand italiani nonché della divulgazione della cultura italiana oltreoceano. Per la sua instancabile “attività di giornalista d’inchiesta e nel sostegno della promozione della cultura dell’immigrazione italiana in America e in Italia” il 6 Luglio scorso ha ricevuto a Ischia il premio Approdi d’Autore, giunto alla sua ventesima edizione, sotto l’Alto Patrocinio del Parlamento europeo.

Si aspettava questo riconoscimento?
Il premio non me lo aspettavo, è stata una sorpresa ovviamente molto gradita. Ricevere questo riconoscimento poi in un’edizione importante come quella che segna i vent’anni, ha reso il premio ancora più significativo. Come ho detto durante la cerimonia, trovarmi su un’isola, Ischia, venendo da un’altra isola come Manhattan, ha reso concreto questo ponte che collega l’Italia agli Stati Uniti è che è stato creato dai primi immigrati; le politiche, certo, hanno sigillato questo rapporto in seguito, ma sono stati gli emigrati italiani i primi ad aver creato un ponte tra le due parti dell’oceano con determinazione, forza e coraggio.

La motivazione del premio recita: “in quanto giornalista di inchiesta, traduttrice, nel sostegno e la divulgazione della cultura italiana oltreoceano e nella promozione della cultura dell’immigrazione italiana in America e in Italia”.
Il premio è stato assegnato per la carriera di giornalismo d’inchiesta, dai giornali alla Tv con Mediaset, per l’attività di traduttrice e per il lavoro di promozione dell’italianità in America e della cultura italoamericana attraverso diversi progetti. Sono arrivata a New York 7 anni fa e ho promosso la cultura italiana lavorando a stretto contatto innanzitutto con la comunità italiana in America, collaborando con il Consolato e altre istituzioni come l’Italian Trade Agency. Ho aperto una società di comunicazione StrategicA Communication che promuove brand italiani con organizzazione anche di eventi per la comunità italo-americana. Parliamo di cultura, economia, tecnologia, design, food and wine, presentiamo brand italiani che sbarcano sul territorio newyorkese. La società copre tutta l’area dello Stato di New York ma anche di altri stati limitrofi. Inoltre, ho fondato Italian Community Resource Fair, una fiera per offrire agli italiani che arrivano a New York supporto nell’affrontare una burocrazia completamente diversa e sapersi muovere in una città complessa come la Big Apple.

Una fiera dedicata alla comunità italiana?
Si, ho organizzato delle giornate in cui si sono offerti, gratuitamente, diversi servizi pe la comunità italiana presente a New York. Dalla consulenza di un “accountant”,un commercialista, per gestire la doppia tassazione o aprire una società, all’opportunità di parlare con un avvocato legale e un avvocato per l’immigrazione, per consulenza sia penale che civile sui visti o su come richiedere la green card: è stata data anche l’opportunità di parlare con un esperto immobiliare per trovare casa in affitto o in vendita, cosi come con una consulente in traduzioni certificate, e assistenza sanitaria grazie a una rappresentante mandata dal sindaco di New York. Insomma, un supporto a 360 gradi per la comunità italiana oltreoceano.

E la comunità italoamericana?
Abbiamo diverse iniziative anche a sostegno della comunità italoamericana. Ultimamente molti stanno riscoprendo, o meglio non le hanno mai abbandonate, le loro radici italiane. Li aiutiamo per esempio a comprare casa in Italia, ad ottenere la cittadinanza visto che sempre più italo-americani esprimono il desiderio di trascorrere l’età pensionistica nel Belpaese. Non a caso da pochi mesi, per dare tutto questo supporto, ho fondato Your Italian School, una scuola di italiano solo online. Dopo l’esperienza del Covid, la gente si è resa conto di come l’istruzione attraverso un semplice click sia comoda e funzionale, tant’è che il progetto, seppur all’inizio, sta riscuotendo molto successo. Ovviamente la mia professione da giornalista è sempre molto attiva, durante il covid ma anche dopo abbiamo creato un evento legato alla psicologia per violenza fisica e psicologica per chi ha sofferto l’isolamento e la lontananza da casa. Gli strascichi del covid sono ancora presenti, ahimè.

Perché è andata a NY? Era già interessata a lavorare nella comunità a favore della cultura italoamericana?
In tutta onesta, non la conoscevo. Chi vive in Italia spesso conosce poco e male la cultura italoamericana, la percepisce da lontano ma non la vive, non la respira. Arrivando ci si rende conto subito che è una comunità forte, presente e in parte diversa dalla nostra. Ha mantenuto usi costumi e valori dei nostri nonni o bisnonni e li ha custoditi con cura ed orgoglio. Per esempio, ancora si fa regolarmente la salsa di pomodori in casa, da noi ormai l’usanza è sempre piú rara. Mangiare gli spaghetti aiutandosi con il cucchiaio: da noi non si usa più. Invece nei ristoranti italoamericani, il cucchiaio viene ancora servito accanto alla forchetta. Ancora oggi, molti americani sentendo che sono italiana mi chiedono se mangio mac-n-cheese o spaghetti meatball, piatti che in Italia non ho mai mangiato e che invece sono tipici della cultura italoamericana, da amare, preservare e promuovere perché unica e straordinaria nel suo genere.

Come è nata e come si è differenziata dalla madrepatria?
È il risultato di un adattamento dei primi emigrati italiani al nuovo stile di vita americano. Per loro avere la carne a tavola, le famose polpette, era un lusso. I mac n cheese sono nati perché non c’era il parmigiano, e quindi facevano la pasta aggiungendo formaggio locale. Non si trovava di certo il parmigiano reggiano come ora. È questo rapporto che mi ha appassionato fortemente. Non mi sono trovata offesa, come molti italiani, dal fatto che non rappresenti la “vera” cucina italiana, ma al contrario, mi ha affascinato perché racchiude in sé la storia dei quelle persone che con coraggio hanno portato avanti tradizioni adattandole senza mai abbandonarle. Tutto questo in un periodo storico dove la loro integrazione era molto difficile e l’emarginazione era cosi presente da coniare termini come mangia spaghetti  o mafioso.

Una società newyorkese totalmente diversa da quella attuale…
Esatto, molto diversa. Persone che hanno lottato contro la discriminazione e i pregiudizi e sono riuscite a conservare la loro identità e la loro cultura culinaria, cosa che non hanno fatto in maniera cosi forte, ad esempio, gli immigrati spagnoli, tedeschi o irlandesi, che si sono adattati più velocemente agli usi locali. Ne abbiamo parlato anche durante il convegno alla Camera dei Deputati: per esempio alcune famiglie italiane vivevano in condizioni igieniche precarie, in appartamenti minuscoli con diversi nuclei familiari e con molti bambini piccoli. Pensiamo agli italiani dei primi del 900, una cultura lontana da quella dell’Italia attuale. Era gente ignorante, analfabeta, nata e cresciuta in piccoli paesini dove si parlava solo il dialetto locale e che salita su una nave mercantile, è approdata nella società progressista newyorkese. Spesso gli ispettori sanitari, entravano nelle case degli italiani e aprendo la credenza sequestravano pasta, vino, caffe. Vedere che fosse prassi normale dare agli adolescenti mezzo bicchiere di vino la domenica a pranzo, rientrava nella totale illegalità. I metodi, allora, erano molto severi e intolleranti, in alcuni casi si è arrivati addirittura all’allontanamento dei bambini dalle loro famiglie. Eppure, nonostante tutto questo, quegli immigrati hanno resistito: immaginiamo quanta forza abbiano avuto per mantenere e preservare le loro radici nella società americana di quel tempo, dove imperava proibizionismo e discriminazione.

Come è cambiata l’emigrazione in America oggi rispetto al secolo scorso?
Oggi ci sono i famosi cervelli in fuga, che non scappano da fame guerra e povertà; noi arriviamo con trolley di marca e non con valigie di cartone; in aereo e non ammassati su navi mercantili, abbiamo diverse lauree al seguito o comunque un alto livello di educazione scolastica. Ma inseguiamo lo stesso sogno americano, certo è leggermente diverso da quello dei primi del 900, dove si facevano i viaggi della speranza per costruire un futuro. Oggi si arriva in America per andare oltre, per avere un’esperienza più completa e un riconoscimento più grande.

Quindi il sogno americano non è morto?
Benché ne dicano, il sogno americano esiste ancora: una società in cui c’è meritocrazia fa sì che anche se sei giovane e vali, hai la possibilità di fare una carriera rapida occupando in breve tempo posti manageriali alti., Inoltre, è una società dove ci si può reinventare anche a 70 anni perché si guarda all’idea, al coraggio di una persona e alla voglia di fare. Noi italiani, negli anni, abbiamo inoltre costruito una reputazione eccellente: siamo visti come delle persone competenti, preparate, con idee brillanti, bravi nel famoso problem solving, e siamo grandi lavoratori. Ma c’è stato un cambio generazionale enorme da allora ad oggi.

Ci spieghi meglio.
Anche prima, gli immigrati che sbarcavano al centro di controllo di Ellis Island erano grandi lavoratori, pensiamo che mezza New York è stata costruita da operai italiani e che il più famoso albero di Natale al mondo quello del Rockfeller Center sia stata un’idea di alcuni lavoratori italiani per festeggiare la vigilia di Natale mentre lavoravano. Grandi lavoratori ma con un’istruzione scarsa, capaci però di intuire la potenza quell’istruzione che loro non avevano ricevuto e avrebbero dovuto dare a tutti i costi ai loro figli. Figli che in pochi anni, laureandosi, hanno cominciato a scalare i vertici della società americana, diventandone parte integrante e fondamentale.

Quindi la reputazione che abbiamo oggi arriva anche da quella costruita negli anni?
Cerro, la reputazione di cui godiamo oggi in quanto italiani in America è anche grazie al duro lavoro degli immigrati di allora e in seguito dei loro figli, oltre ovviamente alla preparazione di chi arriva oggi. I nuovi immigrati come me, fanno un lavoro eccellente sul territorio, Pensiamo solo alla ristorazione, come il ristorante San Matteo nell’upper East side di Manhattan, una pizzeria napoletana e un ristorante molto rinomato a New York che promuove la cucina italiana come storia, radici, lingua, stile di vita, patrimonio culturale; oppure le società di importazione e distribuzione come Shipping Service Italia, o il lavoro degli accountant che sbrigano grattacapi burocratici come lo studio Crocenzi & Pfau che gestisce moltissimi brand italiani. Ecco questa nuova generazione di immigrati ogni giorno dimostra valore e rinsalda una reputazione italiana eccellente.

Come traduttrice ha recentemente tradotto e presentato alla Camera dei deputati il libro di Frank Iovine e Ashley Carr‘Ricette e Ricordi di Nonno – Uno stile di vita Mediterraneo’(LINK ARTICOLO). Si tratta di un libro di singolare impegno culturale per la storia dell’immigrazione italiana. Come lo ha scelto?
L’idea mi è venuta quando ho capito che si poteva trasformare il testo fatto di ricette e ricordi, in un messaggio sul lifestyle italiano. Ho modellato quindi la parte inglese e sono intervenuta suggerendo all’autore dei cambiamenti in modo che la doppia natura del libro potesse rappresentare entrambe le prospettive. Per questo il sottotitolo, “uno stile di vita mediterraneo”, che è stato voluto da me per l’edizione italiana. Si tratta sia di divulgare il modo di vita italiano in America, non solo tra gli italoamericani, ma anche di promuovere la conoscenza della cultura italoamericana in Italia, poco conosciuta e se conosciuta non compresa veramente.

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