Nel 2023 l’Unione Europea ha lanciato la ‘Care Strategy’, invitando i Paesi a raggiungere obiettivi comuni nel settore della cura di lunga durata (traduzione dell’inglese long-term care), che deve essere accessibile, di qualità – anche rispetto alle condizioni di lavoro, – equa e sostenibile. Ma l’Italia è rimasto uno dei paesi europei dove il pilastro dell’assistenza si è spostato sulle “badanti” o assistenti famigliari. Si stima che ce ne siano tra gli 800.000 e 1 milione. Cosa che “sarebbe inaccettabile in paesi dove la cura è considerata un’attività professionale.” Per questo è in corso il progetto LeTs-Care: un progetto di ricerca comparata finanziato da Horizon Europe in ambito “Cultura, Creatività e società inclusiva”. Avviato il 1° aprile 2024, punta a individuare e studiare soluzioni efficaci e replicabili nell’ambito della ‘long term care’. L’Università Ca’ Foscari Venezia è capofila del progetto, che coinvolge sette participanti partner in Italia, Olanda, Spagna, Lituania, Danimarca, Portogallo, Austria, e Belgio.
La risposta italiana
La prof.ssa Barbara Da Roit, docente di sociologia alla Ca’ Foscari, e coordinatrice di LeTs-Care e spiega: “questa strategia ha avuto maggiore successo dove ce n’era meno bisogno, nei Paesi nordici, mentre in altre realtà ha trovato ostacoli strutturali, come in Italia. La risposta dell’Italia è un caso emblematico: dagli anni 2000 sono cresciuti i servizi per la prima infanzia, ma soprattutto nel settore privato, dove, in assenza di ingenti finanziamenti pubblici, i servizi hanno tariffe elevate e sono accessibili a pochi, oppure hanno costi più contenuti grazie a personale mal retribuito e poco protetto e sono quindi di bassa qualità.”
Gli altri Paesi
In Olanda, ad esempio, esistono team interprofessionali di quartiere, che comprendono infermieri, assistenti domiciliari, persone che si occupano delle pulizie in casa e che interagiscono con i caregiver informali. In Danimarca si sperimenta un sistema di ‘riabilitazione’ sociale, per favorire l’autonomia. In tutti i casi si tratta di servizi pubblici o comunque con un elevato finanziamento pubblico. In Italia, invece, una persona anziana viene curata soprattutto con risorse private: i familiari e le assistenti familiari, le cosiddette “badanti”. Da noi il 20% delle persone di 65 anni e più ha almeno una limitazione nello svolgimento delle attività della vita quotidiana: si tratta di oltre 2 milioni 500 mila persone. Di queste circa un milione e mezzo ha difficoltà in almeno 3 attività della vita quotidiana (quindi limitazioni molto importanti). Inoltre, si calcola che in Italia le persone con demenza siano oltre 1 milione (di queste 600.000 con demenza di Alzheimer), in larghissima parte persone anziane. Mentre le persone anziane che vivono in una struttura residenziale di tipo sociosanitario (RSA e simili) sono meno di 300.000 (2,2%della popolazione 65+). Si tratta di una percentuale molto bassa rispetto a quella degli altri paesi europei (in molti paesi si raggiunge il 6% della popolazione 65+). Anche nelle regioni italiane con dotazione maggiore (Veneto, Lombardia) la percentuale non supera il 3%.
Le professionalità
Limitato è anche il numero dei lavoratori e lavoratrici dell’assistenza: circa 400.000 con la grande maggioranza costituita da donne. In questo ambito le condizioni lavorative sono spesso problematiche, come testimoniato da elevati livelli di turnover, carenza di personale, rischi per la salute fisica e psicologica. In Italia, tra il 15% e il 20% delle persone con 50 anni o più offre cure informali. Si tratterebbe, quindi, di almeno 4-5 milioni di persone. Inoltre l’aumento della partecipazione femminile al mercato del lavoro e il prolungamento delle carriere lavorative fanno sì che per un numero crescente di persone i compiti di cura nei confronti dei genitori anziani si sommino al lavoro retribuito e alle altre responsabilità familiari.
Trovare soluzioni adatte
Dunque, che fare? Aspettiamo le conclusioni del progetto, intanto la professoressa Da Roit dice: “serve analizzare quindi gli esempi virtuosi in maniera integrata, tra bisogni, soluzioni, tensioni e contesti. Studiare i modelli di altri paesi, quindi, non significa esportarne le pratiche ‘tout court’, ma capire quali scelte sono disponibili, quali tensioni bisogna risolvere, quali elementi di contesto vanno cambiati. Solo questo potrà consentire lo sviluppo di pratiche che non sono “best” ma sono ragionevoli e sensate per il contesto in cui si inseriscono. La ricerca può aiutare ad analizzare i trade-off e le alternative possibili mettendo i risultati a disposizione dei decisori e dei portatori di interessi”.