Il numero di femminicidi non si arresta, come quello delle violenze, non solo fisiche, ma anche psicologiche, sulle donne. Sulle origini di questo gravissimo fenomeno abbiamo chiesto un parere alla Professoressa Paola Balducci, membro dell’Osservatorio Permanente sulla violenza di genere, istituito presso il Ministero della Giustizia.
Di che cosa si occupa esattamente l’Osservatorio?
L’Osservatorio riunisce magistrati, professori universitari e avvocati, impegnati sul tema della violenza di genere. Il punto di forza è quello del costante dialogo con le istituzioni giudiziarie a livello apicale e territoriale, in collegamento con il Consiglio Superiore della Magistratura e con la Scuola Superiore della Magistratura. Personalmente mi occupo del gruppo di lavoro sulle riforme legislative e sulla comunicazione: in particolare dei rapporti tra i media e procedimenti penali e sentenze. Un primo importante risultato è stato quello del monitoraggio del fenomeno della violenza di genere, attraverso l’estrazione di dati giudiziari e statistici di tutte le Procure d’Italia per verificare qual è lo stato dei lavori (quanti reati sono stati commessi, che conseguenza hanno avuto, etc.) per poter agire. L’esito di questa indagine ha purtroppo dimostrato che nel nostro territorio non tutte le Procure sono dotate di appositi uffici dedicati alle cosiddette fasce deboli, con buona pace delle regole previste dal nuovo Codice Rosso rafforzato, che impone al Pubblico Ministero entro tre giorni di ascoltare la persona offesa. Mancano le strutture, è necessario un incremento di magistrati specializzati nella materia, di personale addetto, di funzionari e agenti di polizia giudiziaria, con una preparazione specifica per questo tipo di reati.
La violenza di genere, la tutela delle donne anche economica sui luoghi di lavoro sono temi di cui si parla e si è parlato nel tempo. Possiamo dire che alla fine non sembrano ricevere ancora risposte concrete?
Gli schemi sono sempre gli stessi. Nonostante la mia generazione abbia vissuto gli anni della contestazione, abbia lottato per liberarsi dagli stereotipi, non si è riusciti completamente a superare il cosiddetto tetto di cristallo. Anche se, indubbiamente, le donne hanno raggiunto traguardi in passato inimmaginabili e riservati al sesso maschile.
Anche a lei è capitato?
Ricordo l’esordio nella professione di avvocato penalista. Entrare nelle difese importanti? Impossibile. Ero donna e, quindi, inaffidabile per il “circolo” degli avvocati uomini. Un grande penalista milanese mi disse: “Paola, metti il cuore oltre l’ostacolo”, il che voleva dire “adeguati alle nostre scelte processuali”. Si accumulava insicurezza su insicurezza. Mi sentivo diversa, inadeguata, anche se all’estero la situazione era differente. Ed è proprio in Germania che ho avuto i primi importantissimi riconoscimenti vincendo una borsa di studio presso il Max Planck Institut di Friburgo, che ospitava i ricercatori di tutto il mondo esperti in Diritto e Procedura Penale.
Possiamo parlare di vere e proprie ingiustizie?
Per quanto riguarda la mia esperienza, nel campo del lavoro, come ho detto, ho dovuto fare sempre molto di più degli altri quando ho deciso di scegliere attività considerate monopolio esclusivamente maschile, anche a discapito della vita personale.
Ma se abbiamo ancora gli stessi problemi, è come se quella generazione non sia stata in grado di educare la nuova?
Io non credo questo. A mio modesto avviso, dopo un periodo in cui c’è stata la cosiddetta rivoluzione, in cui le donne hanno portato avanti le loro battaglie (si pensi che le donne in Magistratura sono entrate solamente nel 1963), si è tornati un po’ indietro. Qualche traguardo è stato raggiunto. Sul piano politico, solamente la presenza di donne in Parlamento e nei luoghi “dove si decideva” ha fatto raggiungere il successo della Legge Golfo Mosca, per quello che riguarda la presenza delle donne nei CDA e negli organismi di revisione delle società quotate in Borsa. È stato un percorso molto faticoso ma la strada è ancora lunga e ci siamo un po’ arenate, anche a seguito dei cambiamenti fisiologici della società e dei rapporti interpersonali.
È stata vinta qualche battaglia. Ma la guerra del cambiamento culturale?
Per quello bisogna partire da quando si è piccoli, un cambiamento che deve partire già tra le mura domestiche. Quello che vedo ancora oggi è che nelle famiglie si perpetua la distinzione tra l’educazione dei maschi e l’educazione delle femmine. Pensiamo alle frasi del tipo “non fare quel gioco, quello è da bambina; quello non è un colore da bambino, non fare la femminuccia”. Bisogna ribaltare questi stereotipi, partendo dalle scuole, che dovrebbero avere gli strumenti e anche le risorse economiche per poterlo fare. Si parla tanto di educazione del rispetto, ma ci vorrebbero pure dei supporti per i docenti, perché siano preparati al cambiamento. Sarebbe un grande successo riuscire ad ottenere che le nuove generazioni veicolino nelle case e nelle famiglie la cultura della parità e del rispetto che hanno appreso nelle scuole. Accanto alla cultura del rispetto è necessario anche che vi sia un’informazione adeguata per i giovani per quello che riguarda i rischi di certi comportamenti, che qualche volta vengono sottovalutati. L’informazione è un’arma potentissima anche per la prevenzione.