domenica, 17 Novembre, 2024
Esteri

L’ultima lezione di Kissinger che ha vissuto tanti secoli in uno

La storia di un protagonista. Dalla inflessibile Realpolitik al Nobel per la Pace

Di Heinz Alfred Kissinger si può leggere tutto e il contrario del tutto. Il peggio del peggio (coccodrillo feroce su Rolling Stone) e il meglio del meglio (Bilderberg che lo celebra in sessione speciale). Nobel per la pace e guerrafondaio. Apertura alla Cina da grande diplomatico e chiusura all’America Latina da vero “amerikano” con la kappa. Su di lui c’è già una montagna di biografie, più o meno autorizzate. Più o meno al veleno. E’ uno che un pezzo di Storia l’ha fatta e poi l’ha anche scritta, in tanti libri. Alla fine può capitare perfino di doverne scrivere. Ma cosa si può scrivere di un signore che ha vissuto esattamente un secolo? Che durante qual secolo ha vissuto altri secoli: quello delle ideologie, quello delle guerre mondiali, quello dei partiti di massa, quello del sogno americano, quello del crollo del muro di Berlino, quello delle Big Tech e perfino quello dell’Intelligenza artificiale sulla quale ci ha lasciato uno dei libri più intelligenti. Naturalmente. Ma forse tutti questi secoli non l’hanno neppure sfiorato altrimenti non avrebbe potuto dire una frase come questa. Lapidaria. “l’America non ha amici o nemici permanenti, solo interessi.” Più Realpolitik di così?

Da operaio a segretario di Stato

In un secolo pieno, Heinz, che diventa Henry, Kissinger ha attraversato tanti secoli con passo da fante. E’ stato nella 84esima Divisione Fanteria. E’ stato un bambino ebreo tedesco che ha dovuto sfuggire al nazismo. Ha fatto l’operaio in una fabbrica di spazzole per poter studiare ed è diventato professore a Harvard; una delle più prestigiose università dell’America del secondo dopoguerra. Un’America piena di sogni e non solo americani. Un’America che ha portato l’Europa e il mondo in una prospettiva pacifica e razionale. Quell’America che con un solo passo ha portato l’umanità, persino, sulla luna, non solo nella Hollywood dei cow boy a cavallo. Mito di cui Kissinger parlò a Oriana Fallaci in quella che definì una delle sue peggiori interviste mai concesse. Un’America, puro Occidente, a costruire la quale quel ragazzino tedesco ha contribuito non poco e l’ha fatto anche con un Presidente, quel Richard Nixon molto contraddittorio, che pochi potevano capire fino in fondo.

Amico e consigliere dei potenti

Quel Presidente che affondando nel Watergate, con gli occhi pieni di lacrime, delirante, chiedeva proprio a Kissinger, nel santuario del potere mondiale, alla Casa Bianca, di inginocchiarsi e pregare insieme. E lui lo fece.
E’ lo stesso Kissinger, così serio e composto nel film Golda, che arriva a casa della premier israeliana, interpretata dalla bravissima Helen Mirren (lui è Liev Schreiber) che, nel pieno delle trattative nella guerra dei sei giorni, lo invita a cena. “Hai fame?” Chiede Golda Meir. Lui risponde: “no grazie”. “La mia governante ha fatto un borshch.” Ribatte lei. Lui capisce che non c’è scampo. Tenta timidamente una spiegazione: “sono stato con i russi ieri sera, mi hanno fatto due grandi cene. Non mi sento perfettamente.” Ma lei non sente ragioni. I soliti russi “con le loro strategie.” E il loro noiosissimo Tolstoj. Ma hanno anche Dostoevskij, prova a resistere lui. Solo sofferenze, ribatte lei. Che detto da Golda Meir sembra una battuta da signora Maisel. Insomma Kissinger il borshch, se lo mangia e anche volentieri, tossicchiando, ma se lo mangia perché Golda, a un certo punto gli va vicino vicino al naso e, riferendosi alla sua governante, bisbiglia: “dovrai mangiarlo, Henry, è una sopravvissuta.” E lui mangia, più che volentieri, sotto lo sguardo amorevole di Golda Meir-Helen Mirren e della governante e dice anche: “è molto buono, grazie.”

I cannoni e la diplomazia

Per essere Kissinger, o diventare Kissinger, si devono mangiare tanti boushch anche quando si è sazi. Lo si capisce osservando quella stazza da fanteria, il baricentro basso e ben piantato per non perdere mai l’equilibrio. Gli occhiali pesanti per leggere e scrivere di tutto, ma soprattutto, prima di tutti. Altrimenti non diventi Kissinger. Non arrivi lucidissimo a cento anni e a pre-dire in un’ultima intervista quello che sta accadendo: “ora la Cina è entrata nei negoziati, ne verremo a capo, penso entro la fine dall’anno.” Parlava della guerra russo-ucraina per la quale, pare, siamo veramente a un tornante. Del resto era una sua convinzione: la diplomazia “funziona soltanto quando si sa che i cannoni sparano davvero.”

La strategia l’essenza geopolitica

Kissinger è stato Segretario di Stato con Nixon e poi con Ford, ma è stato, di fatto, consigliere “strategico” di tutti i presidenti degli Stati Uniti. Strategico perché era un ideatore di strategie. La “strategia” è l’essenza della geopolitica; è lo strumento per risolvere le vertenze tra gli Stati. Il costrutto della diplomazia è la strategia. Nel suo libro, forse la summa del suo sapere, perché il più saggio, Leadership, Kissinger coglie l’essenza di grandi personalità che hanno fatto la storia del proprio Paese, e non a caso focalizza le strategie. E mentre on line, posto dove ognuno mastica il già masticato, tutto si rimpalla sul complemento di specificazione, Kissinger, invece certamente, pensava al sostantivo. E, dunque, i grandi leader che lo affascinano – e, forse, lo rappresentano meglio di altri – hanno, semplicemente, “una strategia.” Vedono dove tanti altri non vedono: come tenere l’equilibrio nel proprio Paese e contribuire all’ordine mondiale. Perché questo è: bilanciare poteri ed equilibri.

Superare i contrasti

Così a Konrad Adenauer attribuisce una grande “strategia dell’umiltà.” A Charles de Gaulle la “strategia della volontà.” A Nixon, nonostante tutto una spiccata “strategia dell’equilibrio.” Anche se molto fu opera dello stesso Kissinger; dal disimpegno dal Vietnam, all’apertura alla Cina, dal “superamento dei contrasti” in Medio Oriente con quelle grandi personalità politiche come, appunto, Golda Meir e Anwar Sadat. E poi Lee Kuan Yew, di fatto il “creatore” di Singapore, al quale Kissinger attribuisce una “strategia dell’eccellenza” e la signora Thatcher campionessa della “strategia della determinazione.” Insomma per governare, ma per governare bene, arriva a concludere Hanry Kissinger al traguardo di una vita passata nel cuore del potere che ha governato il mondo dal secondo dopoguerra, “i buoni leader” devono suscitare nelle persone “il desiderio di seguire il loro cammino.” Può accadere solo se si ha una strategia.

Società e leadership

Forse la sua più lucida lezione di politica. “Ogni società, qualunque sistema politico abbia, si trova eternamente in bilico tra un passato che rappresenta la sua memoria e una visione del futuro che ispira la sua evoluzione. Lungo questa strada è indispensabile avere una leadership: occorre prendere decisioni, conquistarsi fiducia, mantenere promesse, proporre una rotta da seguire. All’interno delle istituzioni umane – Stati, Chiese, eserciti, aziende, scuole – è necessaria una guida che aiuti il popolo a passare dal punto in cui si trova a un punto in cui non è mai stato e, a volte, non sa neanche immaginare di andare. Senza una leadership, le istituzioni vanno alla deriva e le nazioni rischiano di diventare sempre più irrilevanti e, alla fine, crollare.” Così un vero statista “deve trovare un equilibrio tra quanto sanno perché l’hanno giocoforza appreso dal passato e quanto intuiscono del futuro, che è per sua stessa natura aleatorio e incerto. È questa lucida intuizione della direzione da prendere che consente ai leader di porsi obiettivi e studiare strategie.” Appunto, strategie. Anche perché “la leadership è assolutamente essenziale nei periodi di transizione, quando valori e istituzioni perdono la propria rilevanza e i contorni di un degno futuro appaiono sempre più incerti.” Cosa c’è di più transitorio di questo periodo di transizione energetica, climatica, demografica, geopolitica? Sarà per tutte queste, troppe, transizioni che percepiamo una grande mancanza di leader?

La Pace come obiettivo

Una lezione, quella di Kissinger, che non finisce qui e che, forse lodando anche se stesso, finisce per dare quasi più importanza alla squadra che al leader. Perché, è vero, egli non è mai stato un leader (sarebbe stato un grande Presidente se fosse stato eleggibile; era nato tedesco, non americano) ma è stato sempre a fianco di tutti i presidenti degli Stati Uniti da Nixon in poi, tranne Biden, compreso Trump. Ma alla fine neppure il leader basta… ci vuole un Kissinger!
“Il buon governante”, ci ricorda egli stesso, “deve far sì che i suoi stretti collaboratori traducano il suo pensiero in pratica, adattandolo alle questioni concrete del momento. La presenza di una squadra di collaboratori dinamici è il complemento visibile dell’innata vitalità del leader, giacché essi gli offrono sostegno nel suo itinerario e gli alleviano l’onere di prendere decisioni. I governanti possono essere resi migliori – o peggiori – dalle caratteristiche di chi li circonda.” Sicuro che è valso per lui stesso, per i suoi tempi, ma anche per l’oggi e per noi. E’ opinione comune, da quanto si è scritto in questi giorni, che Henry Kissinger è stato un collaboratore di grandi leader e li ha resi migliori. Quanto a se stesso, con un certa inquietudine, come quella giovanile, l’ha scritto di suo pugno: “per tutta la vita ho cercato di rendere il mondo più pacifico. Ho cercato di prevenire una guerra catastrofica e indirizzare l’America verso una direzione più stabile. È difficile dire se tutto questo mi sarà mai riconosciuto.” Lo sarà. Lo sarà. Anche se quella pace è stata, forse grazie a un nativo tedesco, una “pax” un po’ troppo americana.

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