Vittime di disoccupazione, lavori precari e intermittenti, fasulle partite Iva e quant’altro i giovani, oggi, anche valenti professionisti e plurilaureati, rischiano di trovarsi con un monte contributivo esiguo e con una vecchiaia finanziariamente disastrata. La questione è una priorità se non si vuole farla diventare insostenibile.
I dati di Cng e Eures
Una ricerca del Consiglio nazionale dei giovani, in collaborazione con Eures, rivela che gli under 35 dovranno lavorare fino a 74 anni per avere una “pensione dignitosa” che superi i 1.000 euro al mese. Significa che tra quarant’anni mille euro al mese dovrebbero, almeno, mantenere lo stesso potere di acquisto di oggi. Il dossier “Situazione contributiva e futuro pensionistico dei giovani” sottolinea che gli under 35 potrebbero lasciare il lavoro dopo il 2050, ovvero a 66 anni, con un assegno di 900 euro lordi. Ovvero il doppio dell’assegno sociale. Ma per ritirarsi dal lavoro bisogna maturare un assegno che sia 2,8 volte superiore al minimo. E quindi la media si alza a 69,8 anni. Solo così l’assegno raggiungerebbe i 1.249 euro (sempre lordi, ma 951 al netto dell’Irpef). Per superare la soglia dei mille euro (arrivando a 1.099) bisogna posticipare l’uscita a 73 anni e mezzo.
Contributivo puro è un errore
Il risultato di queste stime è che, alle condizioni generalizzate di oggi, la stragrande maggioranza degli under 35 dovrebbe lavorare 52 anni prima di riposarsi dal lavoro. Per i lavoratori con partita Iva, continua e sempre attivi, invece l’importo dell’assegno con 73,6 anni, sarebbe di 1.650 euro lordi mensili. Ovvero 1.128 al netto dell’Irpef. Un valore che equivale a 3,3 volte l’assegno sociale. La prima finestra utile di pensionamento si aprirebbe a 69 anni e mezzo. E prevedrebbe un ritorno pensionistico pari a 805 euro. Per gli analisti vi è una grave distorsione del sistema pensionistico: non soltanto proietta nel tempo le diseguaglianze reddituali, rinunciando a qualsivoglia dimensione redistributiva, ma addirittura risulta punitivo verso i lavoratori con redditi più bassi, costretti a restare al lavoro (al di là dell’anzianità contributiva) per tre o addirittura sei anni più a lungo dei loro coetanei con redditi più alti e ad una maggiore stabilità lavorativa. Maria Cristina Pisani, presidente del Consiglio nazionale dei giovani (Cng) ha espresso “la necessità di un dibattito più approfondito sulle questioni previdenziali, che tenga conto anche delle esigenze delle giovani generazioni”. “Tutto questo comporta un impatto significativo sulla situazione previdenziale futura dei giovani”, ha sottolineato Pisani: “la questione demografica e il passaggio al sistema ‘contributivo puro’ mettono ulteriormente a rischio la sostenibilità del nostro sistema pensionistico. Questa tendenza impone ai cittadini di lavorare più a lungo per ricevere pensioni meno generose rispetto alle generazioni precedenti.”
Eurostat: peggio di noi solo la Grecia
Secondo l’ultimo rapporto Eurostat, la spesa pensionistica in Italia rappresenta il 17,6% del Pil nel 2020, il secondo più alto nell’UE27 dopo la Grecia, e molto superiore alla media dell’UE27 del 13,6%. Per i giovani entrati nel mondo del lavoro nel 2020 all’età di 22 anni in Italia si prevede raggiungeranno l’età pensionabile solo a 71 anni. Nel 2021, i lavoratori under 25 hanno ricevuto in media 8.824 euro, il 40% della retribuzione media complessiva, mentre i lavoratori tra i 25 e i 34 anni hanno ricevuto in media 17.076 euro, il 78% della retribuzione media. In dieci anni, è cresciuta l’incidenza dei contratti a tempo determinato e quella dei contratti atipici passata dal 29,6% al 39,8%. Per di più, uno scarto retributivo consistente si manifesta tra le donne e gli uomini giovani lavoratori, con un divario che si amplia nel tempo. La realtà sta dimostrando un errore marchiano commesso in passato è cioè che il modello puramente contributivo sia sostenibile solo se inserito in un mercato del lavoro basato su stabilità e crescita delle retribuzioni. Maria Cristina Pisani sembra rivolgersi proprio alla premier Meloni: quella delle pensioni dei giovani, dice, “è una questione di giustizia intergenerazionale e di sostenibilità del nostro sistema sociale”.