Gli artigiani italiani sono poco più di un milione e mezzo, in calo costante da dieci anni a questa parte e con salti di campo sempre più frequenti: secondo la Cgia di Mestre l’artigiano “spesso preferisce chiudere la partita Iva e andare a lavorare come dipendente perché in questo modo ha sicuramente meno preoccupazioni e più sicurezze”. Così dal 2012 ne abbiamo persi 325mila tanti da far “cambiare anche il paesaggio urbano”. Non si vedono più, infatti, botteghe di falegnami, idraulici, calzolai, fotografi, lavasecco, orologiai o sarti o tappezzieri. Piuttosto tra quelli che resistono c’è anche stata una evoluzione da renderli quasi irriconoscibili: sono “artigiani del benessere o di informatica”. Negli ultimi anni sono aumentati, infatti, gli estetisti e i tatuatori o gli addetti al web, video maker o i sistemisti.
Feroce confronto Gdo
Le cause del crollo, secondo il centro studi veneto, sono molteplici e risentono, soprattutto degli andamenti demografici: “Il forte aumento dell’età media, provocato da un insufficiente ricambio generazionale”. C’è anche “la feroce” concorrenza della grande distribuzione e del commercio elettronico, e poi il boom del costo degli affitti dei locali e delle tasse nazionali e locali. E poi ancoa è cambiato il modo di consumare e di fare gli acquisti. Si è imposta, scrivono gli artigiani mestrini, “la cultura dell’usa e getta” e della “consegna a domicilio”. Le scarpe, il vestito o il mobile fatto su misura “sono un vecchio ricordo” perché il prodotto realizzato a mano è stato scalzato dall’acquisto a catalogo.
Declino e resistenza
Nell’ultimo decennio sono state Vercelli e Teramo le province che, entrambe con il -27,2 per cento, hanno registrato il declino dell’artigianato più alto d’Italia. Seguono Lucca con il -27, Rovigo con il -26,3 e Massa-Carrara con il -25,3 per cento. Le realtà che, invece, hanno subito le flessioni più contenute sono state Trieste con il -3,2, Napoli con il -2,7 e, infine, Bolzano con il -2,3 per cento. In termini assoluti le province che hanno registrato le “perdite” più importanti sono state Bergamo con -8.441, Brescia con -8.735, Verona con -8.891, Roma con -8.988, Milano con -15.991 e, in particolar modo, Torino con -18.075 artigiani. Per quanto riguarda le regioni, infine, le flessioni più marcate in termini percentuali hanno interessato il Piemonte con il -21,4, le Marche con il -21,6 e l’Abruzzo con il -24,3 per cento. In valore assoluto, invece, le perdite di più significative hanno interessato l’Emilia Romagna (-37.172), il Veneto (-37.507), il Piemonte (-38.150) e, soprattutto, la Lombardia (-60.412 unità).
Qualche rimedio
Gli artigiani difendono gli artigiani e pertanto la Cgia fa notare la perdita di comunità e di relazioni per la perdita delle botteghe storiche delle città. “Queste micro attività conservano l’identità di una comunità e sono uno straordinario presidio in grado di rafforzare la coesione sociale di un territorio.” Insomma quando si parla di “rigenerazone urbana” potrebbe essere importante anche qualche considerazione su come fermare i declino delle botteghe e dei negozi di vicinato che, tra l’altro rende gli spazi pubblici “meno vivibili e più insicuri” penalizzando soprattutto gli anziani. Anziani che, scrive la Cgia, sono “una platea sempre più numerosa della popolazione italiana che conta più di 10 milioni di over 70. Non disponendo spesso dell’auto e senza botteghe sotto casa, per molti di loro fare la spesa è diventato un grosso problema.” I suggerimenti sono sul tavolo da molto tempo: rivalutare il lavoro manuale, rimettere mano all’orientamento scolastico, favorire gli istituti professionali e puntare sull’alternanza scuola-lavoro.