Nel 1982 Grotowski fu chiamato da Ferruccio Marotti come professore a contratto di “Tecniche originarie dell’attore” per la sua cattedra di Storia del teatro e dello spettacolo all’Università di Roma La Sapienza, presso l’allora Istituto del Teatro e dello Spettacolo. “Tecniche originarie dell’attore” anche se Grotowski avrebbe preferito chiamarle solo “Tecniche originarie”.
Era infatti il periodo successivo al Parateatro, era il periodo del “Teatro delle sorgenti”, i due periodi in cui Grotowski si era allontanato dal teatro che lui chiama teatro degli spettacoli. Era anche il periodo immediatamente successivo al colpo di stato del Generale Jaruselski in Polonia, che avrebbe avuto come conseguenza, anche se non immediata, l’abbandono da parte di Grotowski dell’attività in Polonia e il suo trasferimento prima all’università di Roma, poi all’università della California negli Stati Uniti e infine a Pontedera.
Quell’anno Grotowski tenne centoventi ore di lezione, un vero e proprio corso accademico come usava allora, utilizzando per la prima volta i video di carattere antropologico che Marotti aveva raccolto in giro per il mondo, come strumento didattico e come punto di partenza per le sue riflessioni teorico-pratiche che spaziavano ad ampio raggio. Era per lui un momento di transizione sia a livello lavorativo che esistenziale, la fine di un ciclo e l’inizio di un altro, che si sarebbe formalizzato qualche tempo dopo incentrandosi sulla pratica degli elementi tecnici delle arti performative e sulla loro relazione con le tradizioni antropologiche antiche.
Al di là delle formule con cui in quegli anni era etichettato il teatro grotowskiano – teatro povero, teatro per sessanta spettatori, teatro d’élite – il grande merito di Grotowski era quello di porre l’accento sul fatto che il teatro è l’attore e l’attore non è il personaggio, ma l’uomo: il teatro nasce come strumento privilegiato di autocoscienza, come luogo in cui l’attore e lo spettatore fanno un lavoro su se stessi e, grazie a questo lavoro su se stessi, hanno un vero rapporto umano, di vera partecipazione.
Grotowski, insieme con Peter Brook, suo protettore e in qualche modo discepolo, è stato un grande innovatore del teatro del Novecento, ha cambiato drasticamente il punto di vista di chi fa e di chi vede teatro. La portata di questa innovazione è ancora da approfondire: sua e di Brook è l’invenzione del training, poi divulgata da Barba, sua la proposta di un’etica dell’attore come soggetto portatore di autenticità, sua la sperimentazione di spazi scenici sempre variabili per ogni spettacolo, sua l’idea e la pratica del teatro di gruppo. Ma al di là di questa immagine di Grotowski come “riformatore” del teatro moderno emerge la figura di un uomo di teatro e di un uomo di verità, che ha avuto il coraggio – come diceva di sé più di mezzo secolo prima Gordon Craig – di essere innanzitutto un restauratore delle tradizioni più profonde e al tempo stesso un rivoluzionario.
Uso queste due parole antitetiche per definirlo – “restauratore” e “rivoluzionario” – perché questo gioco delle antinomie, delle opposizioni, lui stesso lo ha sempre usato per definire il suo lavoro.
Innanzitutto ha sempre tenuto a dividere il proprio percorso di ricercatore delle basi e delle sorgenti del teatro in fasi e tappe successive – teatro povero, parateatro, teatro delle sorgenti, objective drama, arte come veicolo –, negando la fase precedente quando procedeva verso la fase successiva, che per lui costituiva l’ignoto.
Un filo rosso collega le varie fasi fra loro ed è il filo rosso della coniunctio oppositorum: Grotowski crea delle antinomie per arrivare a una totalità. Così è per antinomie come “apoteosi” e “derisione”, “eros” e “charitas”, “organico” e “artificiale”.
Soffermiamoci in particolare su quest’ultimo aspetto: organico e artificiale. Secondo Grotowski, si può partire nel lavoro dell’attore dal processo organico, cioè dagli impulsi che si articolano nelle azioni, oppure dalla struttura, dal sistema di segni, dal processo artificiale, legato all’ars in quanto tecnica.
Sviluppando fino in fondo l’uno o l’altro dei due processi, si arriva a una sintesi in cui sono compresenti spontaneità e disciplina, concentrazione e rilassamento: nella tecnica organica emerge una forma, una struttura e viceversa nella tecnica artificiale compare una sotterranea corrente di organicità. Nella concretezza del lavoro, l’improvvisazione non è più una scelta arbitraria fra infinite possibilità al di fuori di ogni norma, ma implica una libertà di decisione all’interno di una disciplina, in modo simile all’improvvisazione per esempio dei suonatori di jazz, che improvvisano all’interno di un tema, conservando gli stessi dettagli, ma cambiandone l’ordine e il ritmo.
E questo vale non soltanto per le prove specifiche degli spettacoli, ma anche per il training più generale dell’attore: gli “esercizi fisici”, che partono dallo yoga rovesciandone le regole (dalla stabilizzazione delle posizioni ad azioni dinamiche) si rivolgono verso l’organicità, mentre gli “esercizi plastici” si traducono nella composizione come sistema di segni ma, se assimilati ed eseguiti con maestria, le differenze si annullano. Ancora una volta siamo di fronte ad una opposizione che è solo un punto di partenza e non di arrivo, l’arrivo è la totalità.
Anche gli spettacoli di Grotowski, nel porre di volta in volta un accento diverso su organicità e artificialità, non si sono mai basati sull’esperienza precedente ma hanno sempre dato vita a una nuova totalità, a un diverso spazio, a una diversa relazione con gli spettatori.
Mentre Akropolis era l’artificialità (non era possibile d’altronde affrontare la terribile tematica del campo di concentramento se non attraverso un’estrema formalizzazione e solo alla fine lo spettacolo prendeva il volo verso l’organicità) e Apocalypsis cum figuris era tutto basato sul processo organico, il caso del Principe Costante è particolarmente significativo. In esso Grotowski ha adottato entrambe le tecniche (organica e artificiale) lavorando per un anno separatamente, da un lato con l’attore che recitava il Principe Costante e, dall’altro con il gruppo di tutti gli altri attori. Il gruppo ha cominciato col fare improvvisazioni estremamente formalizzate, con una composizione precisa, e nello sviluppo del lavoro ogni attore ha personalizzato la forma iniziale arrivando a uno slancio personale articolato nel ritmo, a “una composizione vivente”. Al contrario, il protagonista non ha fatto alcun riferimento, all’inizio, a una base formale, ma ha sviluppato un ciclo di improvvisazioni libere, dove l’azione era sempre azione letterale, una corrente di vita, fluida e continua, dove il corpo era corpo-memoria, corpo-vita.
Dopo un periodo molto lungo si sono venute a creare delle sequenze di azioni, ordinate in tre grandi monologhi. Poi, quando il Principe Costante si è trovato fra gli altri, ha cominciato a reagire alla situazione del gruppo, dapprima molto dolcemente e poi con una messa in forma sempre più precisa. Alla fine è apparsa una sequenza di azioni estremamente precise e ritmate, una sorta di “vita articolata”. Una delle definizioni che Grotowski ha usato per definire il lavoro per lo spettacolo è stato non a caso ancora una volta l’opposizione binaria, il binomio “eros e charitas”
È evidente che Cieslak, nel Principe Costante, non recita il personaggio. Lo spettacolo che lo spettatore vede è una storia, ma è un trucco: l’attore non lavora sul personaggio, ma crea l’illusione per lo spettatore di trovarsi di fronte a un personaggio e così quest’ultimo può accettare di trovarsi davanti, invece, un essere umano, che lo sfida e lo invita a un’esperienza umana analoga, cioè a fermarsi e analizzarsi, a scoprire verità che vuole tenere nascoste, a fare qualcosa di simile, ciascuno a suo modo, nella propria vita.
In questa nozione di attore visto come non-personaggio ma come essere umano e di spettatore come testimone di un atto totale consiste il significato più profondo che ci comunica l’esperienza teatrale e umana di Grotowski, sintesi e coniunctio di teatro e vita, di arte e di tecnica personale.