Ci troviamo nel “Pensatoio”, così come lo definisce Mirko Pagliacci. Nativo svizzero ma 100% italiano. Ci accoglie con suo figlio Tommaso che collabora alla realizzazione di questa intervista.
Ti chiedo un breve cenno innanzitutto sulla tua formazione, sulla quale ha influito anche l’aver cantato sin da piccolo all’interno del Coro del Vaticano, nella della Cappella Sistina. Immagino che questo abbia influito non poco sulla tua vena artistica, almeno da un punto di vista visivo.
Potremmo dire che la mia formazione artistica inizia in Vaticano: da bambino ho fatto parte del Coro della Cappella Sistina, guidato dal Maestro Domenico Bartolucci, e all’interno di questa esperienza ho avuto l’opportunità di girare il mondo al seguito di Papa Paolo VI. Nel coro sono rimasto con il ruolo di solista fino alla prima adolescenza. Poi ho scelto di frequentare il liceo artistico in Via Ripetta. In quegli anni, era un po’ la “centrale dell’arte” nel Tridente.
La mattina passavo davanti al bar Rosati, incontravo da Mario Schifano a Fellini, a Sandro Penna: tutti i protagonisti della pittura, del grande cinema, della letteratura, i fotografi, galleristi di grande livello come Plinio De Martiis.
Ero solo un ragazzo, e mi sembrava un privilegio avere come insegnanti artisti del calibro di Nicola Carrino, che già a quei tempi era citato nel celebre manuale di arte contemporanea di Giulio Carlo Argan, e Amelio Roccamonte, che appena diciottenne aveva firmato con Lucio Fontana e altri lo storico Manifesto Blanco. In quegli anni lo Spazialismo ha inciso molto sul mio punto di vista sull’arte. Poi mi sono iscritto all’Accademia di Belle Arti, al corso di pittura.
Lì ricordo di aver seguito vari corsi tra i quali quello di Enzo Brunori. Però non era esattamente quello che cercavo e l’anno successivo sono passato all’adiacente Scuola del Nudo, dove ho incontrato altri grandi maestri, e penso ad Alfonso Avanessian e soprattutto Giulio Turcato. Non veniva tutti i giorni Turcato, perché era già un maestro eccellente, però, quel paio di volte a settimana in cui si presentava, per noi studenti era un po’ come vedere il Papa in Vaticano!
Essendo stato molto legato alla scuola di Piazza del Popolo, hai iniziato anche a dipingere la piazza stessa: in uno di tuoi quadri sei partito da una piazza di fine ‘800 e l’hai resa più moderna.
È un mio soggetto ricorrente. Il punto di partenza è una foto di Alinari sulla quale sono intervenuto con tratti e colori. Ho rielaborato e riproposto quest’immagine di Piazza del Popolo come se fosse una Grande Madre della cultura. D’altra parte io sono nato proprio qui culturalmente, come gran parte degli artisti “cattolici, apostolici, romani”, citando Achille Bonito Oliva, che tra l’altro mi ha inserito a partire dai primi anni 2000 in diverse importanti mostre dedicate al movimento del Metropolismo, in un certo senso emanazione della Transavanguardia. Quindi per me non è la solita piazza da cartolina, ma è proprio una matrice di vita e di arte.
Rappresenta anche un po’ di romanità che comunque stai esportando, perché immagino che richiami l’interesse non solo di collezionisti romani, ma anche internazionali.
Grazie alle gallerie televisive riesco a portare il mio prodotto artistico in tutto il mondo. Ultimamente alcune delle mie opere mostrate da una tv italiana sono state prenotate a Singapore. Viviamo nell’epoca della tecnologia. Il mondo in un certo senso si è ridotto. Però per noi è un bene perché riusciamo a esportare l’arte italiana in tutto il mondo con più facilità.
Peraltro la collaborazione con le televisioni ti ha molto caratterizzato, seppure gli artisti non sempre sposino felicemente l’idea delle gallerie televisive. Tu invece negli anni hai firmato un contratto importante con Telemarket.
Com’è noto agli addetti ai lavori, tutto ha avuto inizio per caso nel 1994, durante una visita a Mario Schifano, nel suo studio. Lui voleva vedere i miei disegni, i miei lavori. E lì incontrai Pier Paolo Cimatti della Monte Titano Arte, uno degli azionisti della Telemarket. A quei tempi era una galleria che promuoveva artisti ad alto livello, lo stesso Schifano, appunto. Da lì ho ottenuto il mio primo contratto, che mi permise di affrancarmi dal mio lavoro impiegatizio di allora per poter fare l’artista al 100%. Ho iniziato così a dedicarmi totalmente alla manifattura e al pensiero artistico. Attualmente collaboro con ArteOraTv, che tratta artisti della Scuola di Piazza del Popolo e alcuni suoi eredi come me.
Quando si vuole portare avanti un discorso artistico, l’aspetto economico non dev’essere demonizzato, come fanno certi puristi. Troppo di frequente gli artisti non hanno denaro, mentre io ritengo che con delle entrate dignitose possono lavorare meglio e anche con più tranquillità nella loro ricerca.
In effetti tanti artisti sono spesso spaventati anche dall’avere a che fare con le gallerie, perché temono poi di diventare un po’ “schiavi “delle stesse.
Bisogna stare attenti. Anche in quel caso è essenziale molta consapevolezza. L’esperienza, poi, è una cosa fondamentale. Io per Telemarket ho fatto molti quadri, poi ho cambiato. Sono andato in un’altra televisione di prestigio, Orler Gallery, in trasmissioni presentate da Carlo Vanoni. Anche adesso ci sono delle televisioni che mi contattano e riesco a dare dieci quadri a qualcuno, cinque ad altri. Insomma, cerco di regolare un pochino io il mercato. La mia prima preoccupazione è comunque sempre quella di fare belle opere. Quando parto con un’idea, sfrutto il soggetto. Da tempo sono affascinato dal tema degli angeli. Ora sto lavorando a quello estratto dal San Matteo di Caravaggio a San Luigi de’ Francesi, il messaggero che dall’alto parla al Santo. Presenterò questa mia nuova opera al prossimo Premio Sulmona, su invito di Duccio Trombadori, che è uno dei critici contemporanei a mio parere più “massicci”, insieme ad Achille Bonito Oliva.
Al mondo della televisione sei ulteriormente legato: i tuoi quadri fanno anche da cornice per alcune fiction della Rai?
Le mie opere sono state presenti nella serie televisiva Provaci ancora prof. e anche in alcune fiction di Canale 5. Prossimamente, Rai Uno ha presenterà la serie Brennero, anche in questo caso due miei quadri sono parte della scenografia. Per me è molto importante perché in tutte le case su Rai Uno fra qualche mese si vedranno i miei quadri nell’ambito di una storia. Questo mi entusiasma, in quanto a mio parere l’arte non può essere solo destinata alle gallerie e ai super musei, ma dovrebbe vivere nelle case e nei salotti di tutti.
I nostri lettori sono sempre molto affascinati dai progetti futuri che coinvolgeranno l’artista che intervistiamo; oltre Sulmona, cos’altro bolle in pentola?
Sono in cantiere diverse mostre, per esempio una, probabilmente ad agosto, in un ex convento francescano restaurato, vicino Cassino. Si tratta di un eremo dov’è passato San Francesco nel 1200. Sono andato a visitarlo e collocheremo le opere nel chiostro.
San Francesco era umbro e tu all’Umbria sei molto legato; lì hai uno studio.
A Perugia ho un piccolo casale dove ho un altro “pensatoio”. E poi ho la fortuna di conoscere un mecenate che è il presidente di una grande fabbrica di circa 12mila metri quadrati; una parte, quasi 3mila metri quadri, è in disuso ed è a mia disposizione. Così, saltuariamente, riesco a lavorarci e a viverci. È un modo per entrare anche negli spazi che un tempo, nell’era industriale, venivano adibiti a un certo tipo di mercato. E ben vengano questi spazi disabitati, adesso che rappresentano una forma di delocalizzazione.
Ho notato, per esempio, che , anche alla Biennale di Venezia, Tosatti ha portato materiale di ripescaggio da una vecchia fabbrica, un’impresa costata 2 milioni. Così io, ironicamente, ho detto a qualche critico che potevano venire nella fabbrica dove lavoro. Anche lì si trova quello stesso genere di materiale. Si tratta di un ex stabilimento di quella che era la Perugina. Lì impacchettavano i Baci. Ora gli spazi si sono liberati in quanto hanno decentralizzato la produzione all’estero, con tutte le conseguenze che possiamo immaginare per l’economia locale.
La tua arte ha un connotato dolce?
Più che altro un connotato sociale. Mi piace l’idea che porti nuova linfa all’interno di capannoni un po’ impolverati.