“Dimmi, enigmatico uomo, chi ami di più? Tuo padre, tua madre, tua sorella, tuo fratello?
Non ho né padre, né madre, né sorella né fratello.
I tuoi amici?
Usate una parola il cui senso mi è rimasto fino ad ‘oggi sconosciuto.
La patria?
Ignoro sotto quale latitudine si trovi.
La bellezza?
L’amerei volentieri, ma dea e immortale.
L’oro?
Lo odio, come voi odiate Dio.
Ma allora, che cosa ami, meraviglioso straniero?
Amo le nuvole… le nuvole che passano laggiù… le meravigliose nuvole!”.
“Lo straniero”, da Lo Spleen di Parigi, Charles Baudelaire
Questa poesia intitolata “Lo straniero” è tratta da Lo Spleen di Parigi, di Charles Baudelaire e descrive benissimo il libro L’amore nel dolore uscito qualche settimana fa per i tipi della Casa Editrice Vaticana. Il libro appare come quello straniero della poesia di Baudelaire. Infatti, lo straniero di Baudelaire viene definito come “enigmatico uomo”, quindi, potrebbe essere una voce, suoni e parole umane, la voce di qualcuno, la mia, la tua, la voce degli autori, la voce di molti. Viene detto anche “meraviglioso straniero”, dunque, una voce meravigliosa, straordinaria. Una voce che racconta l’amore e il dolore. Dunque, un libro con doppio tema. Già da solo uno dei due temi basterebbe a turbarci. Libro rischioso, quindi, sia per chi lo ha realizzato che per il destinatario. E in questo caso il lettore e lo scrittore (anche quando sono in tanti come per questa raccolta di testi) sono tutti sullo stesso piano, perché parlare di dolore e amore vuol dire entrare nel cuore pulsante, nel nucleo centrale di quello che chiamiamo “vita”.
L’amore nel dolore, dunque, è quel meraviglioso straniero che arriva nella nostra vita, alla nostra casa, all’improvviso e ci sconvolge, ci turba, ma inizia anche un dialogo nuovo, diverso, ci pone delle domande essenziali e anche a volte imbarazzanti. Ma questo accostamento non è una novità. Dal Sofista di Platone alla letteratura ebraica è sempre lo straniero ad aprire il dialogo sconvolgendo sia la città che il singolo. Come non pensare all’amore e al dolore come “enigma”, come “alterità”? Chi può dire di conoscere davvero l’amore? Chi può descrivere il dolore? Questo libro è quell’uomo enigmatico della poesia che fa il viaggio della vita con noi e che pur essendo straniero – venendo da lontano, dal di “fuori” – è lì, con noi, nella nostra intimità. Infatti, quale altra realtà può essere più intima a noi quale l’amore e il dolore?
All’“uomo enigmatico” viene chiesto chi lui ama di più: il padre, la madre, la sorella il fratello oppure gli amici. Al che egli risponde di non avere né padre, né madre, né sorella o fratello… In effetti è proprio così, questo libro non ha un autore in particolare, non è stato scritto da “scrittori”, nessuno può reclamare la paternità o la maternità – nemmeno io, anche se per questioni tipografiche appare il mio nome – e di questo io sono orgogliosa perché nessuno degli autori ha detto “io ho dei diritti su questo libro, io sono il padre perché sono più importante di quell’altro autore, sono il più grande oppure perché ho scritto più pagine…). Nessuno di loro ha avuto questo tipo di reazione che potrebbe essere naturale in un’opera collettiva. E se qualcuno l’ha avuta certamente non può considerarsi “lo straniero enigmatico”, non è in sintonia con questo libro, perché questo libro potrebbe essere scritto da chiunque qui presente, da chiunque di noi, da qualsiasi uomo o donna di questo mondo. Gli autori di questo libro, compreso la curatrice, hanno cercato soltanto di dare voce al dolore e all’amore dell’umanità, perché amore e dolore hanno senso solo quando condivisi.
Senza dubbio amerai la tua patria? E la risposta: “Ignoro sotto quale latitudine essa sia situata”. Quante volte pensiamo di relegare in questa o quella dimensione della vita sia l’amore che il dolore: l’amore sta qui, va vissuto in questo o quel momento, in quello e in quell’altro no. E così anche il dolore. Oggi qui. Ma domani lo vogliamo fuori, lo vogliamo cacciare via. Vogliamo delimitarlo, confinarlo da qualche parte, addirittura non farlo entrare, non farlo stare da nessuna parte e non ci rendiamo conto che amore e dolore sono stranieri, pellegrini. Attraversano le frontiere e superano le barriere che cerchiamo ad ogni costo di imporgli.
Allora, sicuramente, amerà la bellezza? Figuriamoci! Certamente sì. È un poeta, uno scrittore, amerà la forma, lo stile, la simmetria. Ma lo straniero risponde: “L’amerei volentieri, ma dea e immortale”. Cioè, la bellezza formale, ideale, perfetta, è lontana dagli uomini. E direi di più. La bellezza, l’estetica, senza l’etica, può essere addirittura violenta. Va ricordato Adorno quando ha dichiarato che “scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie”. La bellezza, quella umana, quella vicina a noi, è la bellezza che si trova nell’amore e nel dolore. Io non ho visto opera d’arte più bella di quella di un ottantenne che aspetta seduto, con lo sguardo lontano, la visita del figlio; dell’adolescente con gli occhi splendenti, ansioso per il futuro; del padre con occhi pieni di preoccupazione per la dignità della famiglia, di un padre e di una madre con occhi pieni di preoccupazione per la salute di un figlio… Questa è la bellezza a noi vicina.
Amerai allora l’oro, i soldi, le ricchezze… E la risposta: “odio queste cose come voi odiate Dio”. Non mi soffermo su questo punto. Vorrei solo dire che la nostra volontà soggettiva di combattere il dolore ci fa dimenticare come esso sia oggettivamente mediato riproducendo i fallimenti socioeconomici che s’inscrivono sia nell’ambito psichico, sia in quello corporeo, lasciando tracce indelebili. Urge trovare l’equilibrio socioeconomico tanto quanto è necessario trovare quel momento in cui qualcuno è capace di farsi carico di chi soffre senza aspettativa di reciprocità, né materiale, né di nessun altro genere, ma nella pura gratuità.
Andiamo all’ultimo dialogo: “- Ma allora, che cosa ami, meraviglioso straniero? – Amo le nuvole… le nuvole che passano laggiù… le meravigliose nuvole!”. Finalmente scopriamo: lo straniero ama le nuvole di quaggiù. Le nuvole… simbolo della nostra transitorietà, anche della nostra precarietà, della nostra debolezza, della nostra vulnerabilità ed esposizione al dolore. Ecco, ama la nostra condizione, ama la nostra “vita”. Noi invece troviamo difficoltà ad amare nel dolore. E questo è molto visibile non solo perché vogliamo mantenere il dolore lontano dalle frontiere dell’io, ma anche come società cerchiamo di non vederlo. Infatti, ho l’impressione che stiamo vivendo in una società anestetizzata o, come scrive il filosofo tedesco Byung-Chul Han in La società senza dolore, stiamo forgiando una “democrazia palliativa” e una “politica agonistica” che fugge dai confronti dolorosi, che preferisce ricorrere ad analgesici di breve efficacia, insomma, una società che non ha il “coraggio del dolore”, che lo vuole far tacere ad ogni costo per considerarlo uno scandalo. Non lo riconosce, non lo vuole proprio vedere, non lo ascolta. Ascoltiamo il dolore, il nostro e quello altrui e scopriremo l’amore.