L’operazione Telecom Italia sembra essersi arenata, ma in realtà le cose stanno in tutt’altro modo, semplicemente perché l’ennesimo cambio di proprietà sarebbe complicato esattamente come tutti quelli che l’hanno preceduto. Questa volta c’è un elemento di novità, ovvero la questione della rete, anzi, delle reti, perché l’ex monopolista italiano ne detiene più di una. Peraltro il fondo che vorrebbe lanciare l’offerta pubblica di acquisto su Telecom, ovvero KKR, detiene già il 37,5% di FiberCop, la società che detiene la rete secondaria di Telecom, quella, per intenderci, che ha ancora la parte finale in rame, dunque non proprio al passo coi tempi. FiberCop avrebbe già potuto fondersi con Open Fiber, la rete tutta in fibra creata da Enel e appena ceduta al 60% a Cassa Depositi e Prestiti e al 40% al fondo Mcquairie. La stessa Cassa Depositi e Prestiti è anche azionista al 10% di Telecom. E allora, si domanderà il lettore, cosa ci sarebbe di difficile in questa fusione?
Tanto per cominciare non è ben chiaro come la Commissione Europea accoglierebbe l’ipotesi che in Italia vi sia un’unica rete, o meglio, che la proprietà delle reti sia in un’unica mano. Le voci dei palazzi di Bruxelles, che spesso vengono lasciate trapelare ad arte perché buon intenditor comprenda, sono piuttosto fredde al riguardo. Si sa, la Ue ha l’ossessione del mercato libero, che poi tanto libero non è, perché finisce spesso per creare degli oligopoli. Ma questa è un’altra storia. Oltre a dover superare il gelo di Bruxelles, la rete a proprietà unica dovrebbe anche ricevere il via libera da parte della politica italiana e anche qui non è che le cose siano tanto semplici. Alcuni esponenti si sono detti favorevoli, ma i sindacati, giustamente, fanno notare che va difesa l’occupazione, che invece viene scarificata in occasione di ogni fusione. Inoltre nei palazzi romani della politica non siamo esattamente in una stagione di fiacca, essendo questo un periodo di legge finanziaria, green pass normali e super, e pre-conclave quirinalizio. Di certo si sa che sulla rete il Governo sarebbe pronto ad applicare il golden power, ovvero un sostanziale diritto di veto.
Se questo è il quadro, verrebbe la tentazione di considerare incagliata l’operazione e pensare ad altro. Invece si procede, lentamente ma si procede. Innanzitutto Telecom ha nominato gli advisor per valutare la congruità dell’offerta di KKR. Dovrebbero essere due banche straniere, ma per il momento non è ancora confermato. Ma anche lo stesso acquirente, ovvero KKR, dovrà far capire cosa vuole farne della rete, dunque dovrà presentare un piano industriale credibile, che valorizzi tutte le aziende del gruppo Telecom. Non deve essere dunque un’operazione finanziaria, cioè di quelle che si fanno solo per comprare oggi a poco e rivendere domani a tanto.
Ma anche fare un’operazione di tipo industriale non sarà semplice. Infatti, tanto per cominciare, il riassetto del gruppo Telecom coinciderebbe con la fase più calda delle gare per assegnare le risorse del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza destinate alla banda larga nelle aree “grigie” (cioè quelle a non completa copertura) e a quella parte del Cloud (cioè dei server ad alta capacità) su cui dovrebbe passare il 75% dei dati della pubblica amministrazione. In questo c’è anche la Sogei (la società di informatica del Ministero dell’Economia e delle Finanze), assieme (ancora una volta) a Cassa Depositi e Prestiti e Leonardo, che si occuperebbe di sicurezza. Questo fa capire come l’operazione di KKR, di fatto, aprirebbe un nuovo cantiere all’interno di un altro cantiere già preesistente.
C’è poi il nodo del prezzo. KKR si è detto disposto ad offrire 0,505 euro per azione, ovvero 10,5 miliardi. Però gli analisti ritengono poco congrua un’offerta del genere, e per capire perché basta fare qualche conto. Telecom Italia, infatti ha in pancia il 66,7% di TimBrasil, che si ritenga valga 3,5 miliardi. Possiede poi il 15% della società delle torri dei cellulari, Inwit, un pacchetto che vale 1,5 miliardi. Poi abbiamo la rete secondaria (quella parzialmente in rame), inserita nella società Fibercop, di cui Telecom possiede il 58%, che dovrebbe valere 2,7 miliardi. Il Cloud, incorporato nella società Noovle, secondo gli analisti può valere fino a 4 miliardi. Poi vi è la rete primaria, che, sempre secondo gli esperti di mercato, dovrebbe valere poco meno di 2 miliardi. Rimane infine l’operatore telefonico italiano, il cui valore può però essere controverso. Lasciandolo dunque impropriamente fuori dai calcoli, la somma delle voci precedenti arriva comunque a oltre 13,5 miliardi, vale a dire il 30% in più dell’offerta iniziale di KKR.
Esiste anche un problema legato all’intreccio delle partecipazioni. Abbiamo già detto che cassa Cassa Depositi e Prestiti è azionista contemporaneamente di Telecom Italia, ma anche della società della rete concorrente, ovvero Open Fiber. Della rete secondaria di Telecom, cioè FiberCop, KKR detiene già il 37,5%, ma nel capitale vi è anche Fastweb, con un 4,5%. Dentro Inwit troviamo come azionista Vodafone e, giusto per stare abbondanti con i potenziali conflitti di interesse, il patron di Iliad, Xavier Niel, fa parte del consiglio d’amministrazione del fondo KKR. Un quadro semplice, vero?
Eppure la matassa va sbrogliata, anche perché le reti nazionali di telecomunicazioni vanno assolutamente ammodernate e potenziate. Il problema è che costa parecchio, perciò è difficile trovare soci che siano disposti ad imbarcarsi nell’impresa. Se davvero l’offerta di KKR non fosse solo speculativa (e soprattutto, se fosse davvero portata avanti) questo potrebbe essere uno di quei “treni” che non passano spesso. Il Governo, attraverso il già citato golden power, possiede tutti gli strumenti per evitare che gli stranieri facciano mani basse a casa nostra, e per incoraggiarli invece a fare investimenti seri nelle nostre infrastrutture. L’ipotesi, circolata tra gli addetti ai lavori, che KKR possa scorporare la telefonia dalle reti e venderla, ad esempio a Iliad, una volta verificata l’assenza di potenziali conflitti di interesse, non rappresenterebbe una novità, visto che Telecom è già stata di proprietà della spagnola Telefonica. Dunque lo straniero è già passato attraverso i telefoni italiani. Con lo scorporo della rete, lo Stato potrebbe continuare ad esercitarvi il suo controllo, anche se fosse in parte ceduta ai privati, e potrebbe farlo in maniera molto semplice attraverso Cassa Depositi e Prestiti, magari fondendo la rete di Telecom con quella di Open Fiber.
Saranno tempi lunghi, ma l’opzione è sul piatto. Probabilmente farà recuperare un po’ di valore all’azionista, anche perché il nulla di fatto molto probabilmente ne farebbe perdere molto altro.