Lo sviluppo del Sud e la riduzione del divario col Nord sono stati al centro del dibattito e dell’intervento politico economico sin dall’unità di Italia (1861) in poi. Tralasciamo per brevità i numerosi interventi fino al 1945. Nel secondo dopoguerra, ispirati dal pensiero di meridionalisti quali Pasquale Saraceno, assistiamo sopratutto alla istituzione dalla Cassa Del Mezzogiorno (1950-1984) e alla riforma agraria (1950), che spezzò almeno in parte il dominio del latifondo.
Si sono spesi fiumi di parole soprattutto sulla Cassa (ispirata alla Tennesee Valley Authority americana) per criticarla e condannarne gli effetti. Oggi si assiste ad una rivalutazione perlomeno parziale dell’impatto della Cassa. Non vi furono solo assistenzialismo (certo pesantemente presente) e cattedrali nel deserto, ma anche un certo sviluppo autoctono e risultati positivi, se è vero che alla chiusura della Cassa erano rimasti invariati i divari (in termini di reddito procapite) fra Nord e Sud. Quello in realtà rappresentava non un fallimento, ma, considerato l’imponente sviluppo del Nord, un buon risultato!
Vi è poi stata La esperienza della Imprenditorialità Giovanile di Carlo Borgomeo (in varie forme dal 1986 al 2000) basata sulla esigenza di passare dalle cattedrali nel deserto ad una imprenditorialità diffusa, nata dal basso, concentrata sui giovani fino a 35 anni e sui processi locali, esperienza affossata dalla miopia confindustriale favorevole a processi liberistici, che bollò lo sviluppo delle microimprese come processo assistenziale.
Qual’è lo stato di fatto attuale? Limitando l’analisi dall’introduzione dell’Euro ad oggi, mentre il reddito procapite italiano è rimasto nella media invariato, quello del Sud si è ridotto del 7% ed oggi il reddito della Valle d’Aosta (39000€ procapite) è doppio di quello della Calabria (17000€). Dal 2000 in poi, 800.000 giovani meridionali sono emigrati al Nord o all’estero.
Il Sud è tagliato fuori dai processi di sviluppo d’avanguardia, tranne alcune isole felici ( elettronica in Puglia, petrolio in Basilicata, aerospaziale in Puglia, informatica in Campania etc). Per il resto l’economia del Sud è basata su una struttura economica tradizionale (agricoltura anche di qualità, commercio, servizi) con una forte presenza del settore pubblico. Il Sud non ha praticamente i distretti industriali (clusters) che sono alla base del successo della pmi italiana del centro nord.
Quale politica economica allora? Tralasciamo i folcloristici movimenti neo-borbonici che danno la colpa del ritardo ai piemontesi ed in genere al Nord (che propongono in concreto? Ritorno ai latifondi baronali?), i quali non vanno al di la di una sterile polemica storica (già stroncata peraltro da Croce e Gramsci) .Non mi soffermo sul dibattito sulla autonomia regionale differenziata (pure cruciale) dove metto solo in evidenza che sarebbe opportuno anche per il Sud passare da una politica assistenzialista ad una basata sull’efficacia e sulla efficienza .
A parere di chi scrive, bisognerebbe concentrare gli interventi sui relativi punti di forza: la agricoltura, il turismo, la cultura (riscoprire i giacimenti culturali?). Occorre nutrire i pochi champions innovativi in Puglia, Campania etc.). Puntare sui giovani, ritrovando le ragioni della imprenditorialità giovanile che è stata smantellata. Anche Invitalia (la agenzia nazionale per gli investimenti dall’estero) comincia a mostrare cedimenti. Oggi le multinazionali preferiscono comprare aziende già esistenti all’estero che effettuare investimenti al Sud ex novo. Un interessante esperimento è quello di ripopolare a basso costo con gli immigrati e con i pensionati i piccoli paesi, con possibili positivi effetti sul recupero edilizio e geologico.
Ma soprattutto è necessario attuare un grande piano di investimenti materiali ed immateriali (infrastrutture fisiche, porti, aeroporti, alta velocità, istruzione e formazione, autostrade digitali e governance pubblica, recupero del patrimonio edilizio, investimenti green etc.
In realtà i fondi sia nazionali non mancano, solo che non vengono in gran parte utilizzati o sono utilizzati male. Il totale dei Fondi Coesione previsti per il periodo 2014-2020 è di ben 144mld €! La metà di questi fondi è concentrata nei Fondi Strutturali Europei. Essi si dividono in Fse per le persone, Fesr per le infrastrutture e Feasgr per l’agricoltura. Nella attuale programmazione settennale 2014-20 dei fondi europei vi sono in totale la bellezza di 70mld stanziati di cui 40 dall’Ue e 30 dal cofinanziamento nazionale. Quindi 10 mld all’ anno, di cui l’ 85% è destinato al sud.
Ebbene, a giugno 2019, ormai vicini alla chiusura della programmazione, si erano spesi solo 17 mld, il 25% del totale! Un, peraltro consueto, insuccesso. Quello che appare evidente è Il fallimento dell’operato delle Regioni meridionali, che hanno in carico la programmazione e la gestione dei Fondi. Esse non hanno expertise, non hanno la cultura dell’investimento e neanche della manutenzione.
E’ il momento di soluzioni drastiche! Si potrebbe Fare una nuova “cassa per il mezzogiorno” (o rendere veramente funzionante l’Agenzia per la Coesione istituita nel 2014) e dargli la gestione almeno parte dei fondi strutturali da sottrarre alle regioni inadempienti. In aggiunta rafforzare i Pons (piani nazionali cogestiti dal Roma e dalle regioni). Una sottrazione totale peraltro non è possibile perlomeno nel breve periodo . Presuppone una Riforma dei regolamenti comunitari e di una parte della Costituzione.
Intervenire dove? Più sulla gestione che sulla programmazione. Infatti la programmazione oggi è già in gran parte centralizzata. La scrittura dei Piani Operativi Regionali (che devono essere approvati sia a Roma che a Bruxelles) è delegata non solo alle regioni ma anche alle strutture centrali ministeriali, e talvolta anche a consulenti esterni addirittura stranieri.
Il punto debole è la gestione operativa. In sintesi vi sono: ritardi nella attuazione dei POR, incapacità di programmazione operativa, incapacità a scrivere i bandi e gestirne la selezione, scarsa disponibilità locale di servizi avanzati, gestione clientelare delle operations, e last but not least purtroppo numerose malversazioni.
Cosa fare, quindi? Lasciare formalmente la gestione alle regioni meridionali. Attuare una Gestione di supplenza centralizzata obbligatoria per le Regioni che non tengono il passo (praticamente tutte le grandi del Sud), lasciando alle regioni la funzione di collettore della domanda, ma gestendo con task forces esterne la gestione operativa e infine aprire i bandi a risorse qualificate nazionali o addirittura europee. Il che significa infine superare l’accreditamento regionale che limita ai locali l’accesso alle risorse.
Insomma in definitiva, il rilancio del mezzogiorno si interseca con il fallimento del regionalismo meridionale. Questo è il nodo gordiano da sciogliere!