Da circa un anno il Fronte indipendentista di Liberazione Popolare del Tigray (FLPT) è in guerra con il governo centrale dell’Etiopia, l’ennesima tragedia umanitaria ed etnica che si consuma nel continente africano sotto il silenzio della comunità internazionale. Solo nell’ultima settimana sono stati ripescati oltre trenta cadaveri nelle acque del fiume Setit, al confine tra Etiopia e Sudan e soprattutto tra la regione ribelle del Tigray e quella dell’Amhara, leale al governo centrale di Addis Abeba. Si pensa siano tigrini, con ferite di arma da fuoco e le mani legate.
Dal Premio Nobel per la Pace alle accuse di crimini di guerra
L’attuale Primo ministro Abiy Ahmed, di etnia oromo ed esponente del governo di coalizione del Fronte Democratico Rivoluzionario Etiope, conquista il potere nel 2018 con promesse di pacificazione e democratizzazione di un Paese sempre più frammentato. Le sue prime decisioni, infatti, vanno in quella direzione (scarcerazione di migliaia di prigionieri politici, garanzie di una maggiore libertà di stampa, avvio del processo di pace con l’Eritrea dopo oltre vent’anni di conflitto), tanto da fargli meritare il Premio Nobel per la Pace. Ma quella che sembrava una nuova stagione di crescita e stabilità per il Corno d’Africa è durata poco, con il riacuirsi delle tensioni etniche mai superate veramente e che rischiano di estendersi anche in altre regioni del Paese. In Tigray è ormai in corso una gravissima crisi umanitaria, con circa 350.000 persone che si trovano in situazione di carestia. Dall’inizio del conflitto, sono 2,7 milioni gli sfollati e migliaia i profughi in fuga verso il Sudan. La scorsa settimana, il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, ha affermato di essere gravemente preoccupato per la situazione, in particolare per la “violenza indicibile” commessa contro le donne del Tigray.
Potrebbe trasformarsi in un nuovo Ruanda
L’Etiopia è sede dell’Unione Africana ed è stata la prima nazione a firmare la Convenzione delle Nazioni Unite sul genocidio. Il suo sfaldamento metterebbe in pericolo l’intera regione dell’Africa orientale oltre a rappresentare un fallimento per tutta la comunità internazionale. Secondo le indagini delle Nazioni Unite e delle organizzazioni internazionali per i diritti umani, le truppe eritree sono entrate nel Tigray per combattere a fianco delle forze federali in un conflitto segnato da abusi, stupri e violenze. Nonostante, quindi, l’annunciato ritiro delle truppe di Asmara, i ribelli del Tigray hanno più volte denunciato che molti soldati eritrei sono rimasti sul campo. Il rischio che il conflitto tra le regioni che vogliono l’indipendenza e il governo centrale si protragga per anni è concreto e gli sforzi di Addis Abeba nell’isolare il Tigray, anche dagli aiuti umanitari, rendono insostenibili le condizioni della popolazione, aumentando la possibilità che si trasformi in un nuovo Ruanda. “Abiy ha insistito molto sull’unità nazionale – commenta il missionario comboniano Padre Giulio Albanese in una intervista – concetto sacrosanto, ma guardando ai tratti fisiognomici dell’Etiopia, ci si rende conto che effettivamente è una repubblica federale democratica. Il problema è che le regioni, che sono dei veri e propri stati, fanno fatica a rinunciare alla autonomia, che, con un potere centrale così deciso e determinato, viene almeno in parte mortificata”.