Da Gaza all’Ucraina: gli animali, le prime vittime silenziose della guerra

La guerra moderna non colpisce più solo l’uomo. Dalle rovine di Gaza agli allevamenti bombardati in Ucraina, i conflitti non risparmiano animali e ambiente. La morte del veterinario Mu’ath nella Striscia e dei tredicimila maiali di Kharkiv rivela una verità rimossa: la violenza travolge ogni forma di vita e prendersene cura diventa un ultimo atto di civiltà.
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A Gaza un veterinario è morto accanto al cane che stava cercando di salvare. In Ucraina, migliaia di maiali sono rimasti intrappolati e bruciati nelle stalle di un allevamento bombardato. Si pensa di rado al destino degli animali durante le guerre, in particolare dei randagi o di quelli rinchiusi negli allevamenti. Eppure, proprio riflettendo su queste vittime “marginali” della violenza umana si può comprendere qualcosa di più profondo e imprevisto.

Il 24 ottobre 2025 è stato ucciso Mu’ath, il veterinario gentile di Gaza. Curava cani, gatti, asini e capre feriti sotto le macerie, collaborando con l’unico rifugio attivo nella Striscia. È morto mentre cercava di tornare temporaneamente a casa, forse per salvare ancora qualche animale. I volontari lo hanno trovato accanto a un cane che non si era allontanato da lui. Nel suo gesto si riassume una forma estrema di resistenza morale: prendersi cura di chi non combatte e non parla. In un luogo dove ogni gesto di pietà sembra inutile, il suo lavoro diventava una difesa della vita per se stessa.

Tre settimane prima, il 3 ottobre, un attacco con droni russi ha colpito un grande allevamento di suini nel distretto di Novovodolazka, nella regione di Kharkiv. Circa tredicimila maiali sono morti bruciati nelle stalle. Le immagini dei soccorritori mostrano carcasse ammucchiate, tetti squarciati, fumo nero. In una guerra tecnologica, gli animali non sono più strumenti, ma corpi senza nome che nessun bollettino riporta. Secondo i dati aziendali diffusi gli animali erano distribuiti su poco più di tredicimila metri quadrati, una densità che rivela anche la fragilità disumana degli allevamenti intensivi.

Due immagini lontane, da due guerre diverse, raccontano una stessa verità: la guerra moderna non distrugge soltanto gli uomini, ma la vita intera, in tutte le sue forme. Curzio Malaparte l’aveva intuito ottant’anni fa in “Kaputt“, nel capitolo “Patriacavallo“, in cui descrive la metamorfosi del mondo: l’acciaio e la tecnologia sostituiscono le persone, eppure le vittime, in carne ossa, che siano umani, animali o piante, continuano a morire. La postmodernità delle macchine non distrugge soltanto corpi: avvelena suoli, acque, aria, lasciando dietro di sé metalli pesanti e detriti tossici. In Ucraina, in Siria, a Gaza, interi ecosistemi vengono cancellati o resi inabitabili. L’ambiente, come gli animali, non ha voce nei negoziati, ma paga le conseguenze più durature.

Dalla guerra con gli animali alla guerra senza

Per secoli gli animali hanno “partecipato” alla guerra come schiavi, alleati, strumenti. Dagli elefanti di Annibale ai cavalli napoleonici, dai muli del ’15-’18 ai piccioni messaggeri e ai cani da soccorso. C’erano anche premi, decorazioni, riconoscimenti per loro. Alcuni cavalli e cani erano considerati “eroi”. Erano, paradossalmente, parte della sintassi del conflitto, arruolati come partecipanti attivi. Nelle guerre contemporanee non combattono: subiscono soltanto. Non hanno posto nella logistica o nel mito, solo nel disastro.

Il filosofo Giorgio Agamben ha parlato di “pura vita”, riferendosi a chi non ha diritti né voce. Gli animali in guerra incarnano quella condizione in forma estrema. La violenza postmoderna non distingue più tra la vita e la cosa. Nelle guerre del passato la violenza distingueva, almeno formalmente, tra combattente e innocente. Oggi i confini saltano e animali e bambini diventano le due figure gemelle dell’innocenza violata. A Gaza, secondo Save the Children, almeno ventimila bambini sono stati uccisi dall’inizio dell’offensiva, un dato aggiornato a ottobre 2025, più di uno ogni ora. Una tradizione militare indiana racconta che i Rajput, contro gli elefanti da guerra, applicassero finte proboscidi ai cavalli, così che gli elefanti nemici scambiandoli per piccoli della loro specie, si rifiutassero di attaccare. L’uomo moderno ha smarrito quella soglia di riconoscimento.

Sembra esserci un filo che unisce Mu’ath, i maiali di Kharkiv e gli elefanti delle cronache antiche: una linea sottile tra forza e pietà. Di contro la guerra di oggi non ha più mano né volto, droni e calcoli trasformano tutto in superficie colpibile. La compassione rischia di diventare impulso estetico, non dovere morale.

C’è un dolore ai margini delle cronache, una guerra che non figura nei bollettini e non siede ai tavoli diplomatici, ma che colpisce qualcosa di più profondo. Invisibili tra gli invisibili, gli animali condividono con gli uomini paura, fame e distruzione, ma senza voce, senza tutela, senza corridoi. Per questo la figura del veterinario di Gaza commuove: perché restituisce alla pietà la sua dimensione concreta. Curare un gatto tra le rovine non è un atto “minore”: è un gesto di cultura, nel senso originario della parola latina colere, “aver cura”. È la cultura come forma di resistenza al disumano, come memoria del vivente. In un tempo in cui la guerra colpisce indiscriminatamente uomini, animali e ambiente, il rispetto del vivente è l’ultimo segno possibile di civiltà.

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