Il patriarcato si spegne. E gli uomini restano senza parole

La violenza contro le donne come sintomo della crisi dell’uomo moderno che affronta il vuoto lasciato dal superamento dei vecchi schemi. Perché ora non basta nascere maschio per essere uomo
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L’ho uccisa perché voleva vivere senza di me”. Così ha dichiarato Filippo Turetta, l’assassino di Giulia Cecchettin, durante l’interrogatorio nel carcere di Verona. Questa frase, che condensa l’idiozia del movente di ogni femminicidio (idiota nel senso etimologico, l’incapacità di uscire dal proprio sé) rivela qualcosa che va oltre la cronaca e si affaccia sul vuoto simbolico in cui si muove oggi il giovane maschio occidentale. Non è la voce del patriarca che punisce la disubbidienza, la tragedia di Antigone che sfida il tiranno Creonte con il suo “no”. In quel “senza di me” si rivela un’altra tragedia: quella di un uomo che non riconosce più se stesso al di fuori di una relazione, che non ha una identità al di fuori di un ruolo in cui si è chiuso pretendendo di chiudere l’altra. Proprio perché potrebbe adattarsi a quasi ogni femminicidio, quella frase diventa il segnale di una ferita collettiva: una mascolinità che ha perso i propri riferimenti e non riesce ancora a riconoscerne di nuovi.

La domanda da porsi, allora, va oltre la morbosità del singolo fatto di cronaca. Presa simbolicamente, questa frase semplice e crudele apre un’epoca o la chiude? Nei primi mesi del 2025 si contano già decine di casi; nel 2022, secondo l’Istat, le vittime donne di omicidio volontario sono state 322. A questo punto, la domanda non è più tanto “perché”, ma “come”: come può una cultura generare una violenza tanto seriale? C’è un dato, nei femminicidi italiani, che merita riflessione: non tanto il fatto che accadano, quanto la loro ripetitività. Si susseguono con tale regolarità da diventare parte della norma, al punto da generare persino un termine giuridico nuovo, “femminicidio”.

Per secoli la mascolinità dominante si è costruita su ruoli simbolici, economici e politici: il padre che comanda, il lavoratore che produce, il marito che protegge. Tramite rituali sociali, il bambino diventava uomo e diventandolo si faceva soggetto politico. Viceversa, la femminilità si basava su un ruolo biologico, di madre, solo in seconda battuta politico, o meglio pre-politico; alle donne era affidata la sfera della cura della malattia, della morte, della magia/farmacia. Donna si nasceva, e proprio su questo conflitto, tra la Legge politica di Creonte e quella metafisica di Antigone, si fondava quella tragedia. Tutto questo vale fino alla modernità, quando, come osservava Simone de Beauvoir, la scienza e la medicina sistematizzano quel sapere misterico, sottraendolo alle donne e demonizzandone il monopolio fino alla caccia alle streghe. Oggi, dopo un secolo di rivoluzioni politiche e scoperte scientifiche (non ultima la pillola) quell’architettura è in frantumi. E mentre le donne, sempre sulla scia di Simone de Beauvoir, hanno imparato a diventare soggetti definiti e autonomi («Non si nasce donna: lo si diventa»), gli uomini non hanno ricevuto un “diventare” equivalente. Il linguaggio del maschile rimane ancorato alla perdita o all’assenza, non alla costruzione. “Senza di me”… le déluge, l’alluvione.

Il filosofo Raphaël Liogier osserva che oggi “gli uomini non sanno più come comportarsi”. Non è più questione di chi sia un uomo, ma di cosa faccia, di come agisca. È venuto meno il riferimento: quando identità e funzione si sgretolano insieme, resta il vuoto. E nel vuoto cresce l’angoscia. È qui che la libertà dell’altra diventa insieme specchio e ferita. Nello sguardo dell’altra, l’uomo legge la cancellazione di sé. Insomma, l’impressione è che la serialità dei femminicidi non sia tanto una manifestazione del patriarcato, ma il sintomo, e quindi la conferma, della sua agonia, un ultimo colpo di coda.
Accanto a questa crisi si affacciano, timidamente, i segni di una mascolinità inedita.

Uomini che vivono la paternità come cura e non come comando, che accettano la vulnerabilità, che ridefiniscono la forza come resistenza all’invisibilità invece che come dominio. Nella cultura pop, nel cinema, nell’educazione dei figli, queste figure emergono; ancora minoritarie, spesso derise (il che la dice lunga) ma presenti. La loro marginalità deriva proprio dal fatto che non hanno ancora una grammatica pubblica, non sono state codificate dal sistema. Molti tentativi, pochi modelli. Alcuni del tutto superficiali, come la moda, negli Stati Uniti ormai diffusa, dello smalto per uomini, che Fedez ha provato a importare anche in Italia con scarso successo.

C’è però anche il versante opposto: la regressione. Movimenti che si proclamano per la tutela degli uomini, comunità della manosphere o incel, gruppi di “difesa dei diritti maschili” che pur riconoscendo un disagio reale finiscono per gravitare verso la destra più reazionaria (e, come sempre, misogina), come se la scomparsa del maschio dominante producesse una nostalgia autoritaria che, forse, dice qualcosa anche sul ritorno ai nazionalismi stantii a cui stiamo assistendo in tutto il mondo occidentale. Questi movimenti ricordano, in certa misura, quelli nati in difesa di un dialetto o di un’identità locale. Quando si crea un’associazione per tutelare una lingua, è segno inequivocabile che quella lingua sta morendo. Così si alza la retorica del risentimento: l’uomo non trova riconoscimento in un linguaggio nuovo e reagisce, oltre tempo massimo, difendendo quello vecchio.

E tuttavia la sofferenza del maschile è un problema reale, ancora poco riconosciuto nel dibattito pubblico. In Europa oltre il 75% dei suicidi riguarda uomini; in Italia, nel 2020, su 3.748 casi, il 79% aveva una vittima maschile. I ragazzi abbandonano la scuola molto più spesso delle ragazze; molti uomini vivono in una solitudine estrema e, prigionieri di un’idea patriarcale di virilità, non sanno chiedere aiuto. I lavori più pesanti restano ancora “da uomo”, e la società fatica a proporre un modello diverso dalla forza.

Così il patriarcato non è solo un sistema di dominio, ma una gabbia che crolla su chi l’ha costruita. Nel suo crollo produce detriti: uomini che uccidono, che si uccidono; uomini che si isolano nel loro sentirsi inadeguati, nella paura che si trasforma in odio per le donne; uomini che tentano, maldestramente, di ridefinirsi.

Come scriveva Antonio Gramsci nei “Quaderni del carcere”: “la crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si manifestano i fenomeni morbosi più svariati”. È in questo interregno, insieme morboso e necessario, che ci troviamo, tra la fine di un linguaggio e l’attesa di un altro.

Se le donne hanno imparato che “non si nasce donna, lo si diventa”, forse gli uomini stanno scoprendo che non è più sufficiente nascere maschio per diventare uomo. Il modello antico non regge più, quello nuovo non ha ancora nome. In mezzo resta un vuoto sociale, simbolico e personale, che non è solo una mancanza, ma una possibilità, il luogo, forse, in cui il maschile può finalmente disarmarsi di sé.

I femminicidi ne sono il lato oscuro, il punto di implosione di un’identità che non riesce a trasformarsi. Accanto all’orrore esistono anche i tentativi, fragili e sommessi, di un nuovo modo d’essere uomini: non fondato sul potere, ma sulla capacità di abitare la perdita. Il patriarcato, intanto, continua a morire. E come tutte le lingue che si estinguono, lascia muti quelli che lo parlavano. Ma forse, proprio in quel silenzio, comincia la nascita di una lingua diversa.

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