“Essere esclusivi” è lo slogan tacito che pronunciamo non appena ci allontaniamo dal telefono per qualche secondo. Ma dura poco: il tempo di qualche respiro, poi la connessione torna a richiamarci nel mondo dell’iperrelativismo, dove tutto dipende dagli altri.
La filosofia di Platone immaginava un mondo delle idee, invisibile ma capace di orientarci verso la conoscenza di noi stessi. Oggi, invece, sembra emergere un paradosso: non più tensione verso l’“Idea”, ma verso la sua negazione. Dopo l’esplosione della pandemia, il cosmo digitale ha moltiplicato un universo di “anti-idee”: il sé non è più identità, ma condizione. Non chi sono, ma se potessi essere.
Dal pensiero alla simulazione
Un tempo la riflessione nasceva dalle scelte concrete del presente e risaliva verso l’astrazione. Oggi la direzione sembra rovesciata. L’esperienza si consuma nell’osservazione virtuale di vite altrui, come un carrello acquisti da cui prelevare modelli.
Tra i giovanissimi non si compie esperienza: la si simula. La realtà viene ridotta a icona, a contenuto, a schermo. Le certezze durano finché dura la batteria. Appena il telefono si spegne, si spegne anche la narrazione di sé: il reale irrompe senza filtri. È qui che nasce un eterno presente condizionale. Tutto «dipende» – ma non da noi: dagli altri. Da ciò che vedono, approvano, commentano. Anche i sentimenti si assottigliano: reazioni, emozioni, perfino relazioni si contraggono in una grammatica di emoticon, schemi e automatismi. Adeguarsi significa spezzare i legami naturali su cui si fonda una società umana, rischiando di scivolare nella solitudine dell’indifferenza, tra l’uomo e l’utente.
La depressione dell’essere, la perdita di senso, non è più un’astrazione filosofica: è un rischio quotidiano di chi viene ridotto a icona sostituibile.
Dalla statua della ragazza al cellulare al Solitàrio del Pincio
Otto mesi dopo la comparsa, a Firenze, della statua di Thomas J. Price – la giovane con lo sguardo perso nel telefono, lo schermo come un trofeo all’altezza del volto – arriva un’altra icona della contemporaneità. Salendo la scalinata del Pincio a Roma, tra i pini e il panorama, emerge una forma rotonda con un diamante sulla sommità. È Solitàrio, l’installazione dell’artista portoghese Joana Vasconcelos, inaugurata il primo dicembre. Non è una provocazione urlata, ma una presenza muta e imponente: un gigantesco solitario che guarda il cielo.
L’opera dialoga con il luogo: un giardino originariamente destinato allo svago aristocratico, simbolo della borghesia ottocentesca. Oggi quel senso di esclusività torna, ma sotto altre vesti: l’uomo è definito dall’oggetto, non viceversa. L’unica differenza è l’ornamento, l’apparenza.
Realizzata grazie alla Fondazione Valentino Garavani e Giancarlo Giammetti con il supporto di PM23, l’opera arriva alle porte del Natale. Il solitario, simbolo di unione affettiva, diventa qui promessa di stagione nuova, attrattiva giocosa per chi passeggia nel cuore della Città Eterna.
La prima impressione dei visitatori è la ricchezza, la “dolce vita”, l’idea di una vita da vivere dolcemente, comunque. Ma proprio questa immediatezza rischia di nascondere il cuore dell’opera.
Il lato nascosto: una forma di solitudine
Il Comune di Roma l’ha voluta soprattutto per addobbare uno dei luoghi più frequentati della città: un grande gioiello per una grande terrazza. Ma ciò che passa inosservato è la sua genesi.

Dietro l’impatto decorativo, Solitàrio porta con sé un messaggio più discreto: la solitudine. Non è il diamante a risplendere, ma l’assenza intorno. L’installazione incarna l’indifferenza verso ciò che è autentico e piccolo, verso ciò che è simbolo e non icona. La perfezione lucida del solitario sovrasta il dettaglio umano.
Forse è proprio questo il suo significato più profondo: un promemoria gigantesco del debito collettivo che stiamo accumulando nei confronti della realtà. Una forma luminosa che celebra l’esclusività e, al tempo stesso, ricorda l’esclusione. Non semplicemente un anello: ma il segno che, in un’epoca di iper-visibilità, rischiamo di essere tutti un po’ più soli.


