Dalle figurine alla finanza. Come le carte Pokémon sono diventate il nuovo oro dei nostalgici

Un tempo icone dell’infanzia, oggi asset da investimento. Dalle teche ai mercati online, le carte Pokémon raccontano una metamorfosi culturale, che trasforma memoria, riconoscimento e identità in elementi misurabili anche economicamente
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Per anni sono rimaste chiuse in raccoglitori di plastica, infilate in bustine trasparenti, scambiate senza troppe attenzioni nei cortili delle scuole o sui banchi di classe. Le carte Pokémon appartenevano a un tempo preciso, quello dell’infanzia, del gioco, della competizione leggera. Oggetti destinati a circolare, a consumarsi, a perdersi. Oggi, osservando il modo in cui vengono trattate e raccontate, quello status appare profondamente cambiato. Ora compaiono in teche illuminate, vengono certificate, assicurate, sequestrate durante controlli doganali perché contrabbandate, presentate dai media come beni di valore.

Alcuni episodi hanno reso visibile questo slittamento: la vendita di singole carte attraverso grandi catene commerciali, il sequestro di collezioni destinate al mercato estero, le storie rilanciate sui social di acquisti importanti finanziati grazie alla loro compravendita, fino al caso diventato virale di una Lamborghini acquistata con i proventi di una collezione Pokémon. Non si tratta di situazioni diffuse né rappresentative, ma sono sufficienti a indicare che il modo di guardare a questi oggetti è cambiato.

Il gioco cambia le regole

Il successo economico delle carte Pokémon non è casuale né improvvisato. È il risultato di una combinazione precisa di fattori. Innanzitutto, la riconoscibilità globale. È uno dei pochi universi narrativi capaci di attraversare generazioni, continenti e linguaggi, mantenendo personaggi, simboli e immaginari immediatamente leggibili. A questo si aggiunge una scarsità strutturata: prime edizioni, tirature limitate, errori di stampa, condizioni di conservazione diventano elementi misurabili, classificabili, confrontabili.

Ma soprattutto, funzionano perché uniscono memoria individuale e validazione collettiva. Non basta possedere una carta, occorre che altri sappiano riconoscerne il valore. Qui entrano in gioco sistemi di grading. Si tratta di servizi specializzati che valutano lo stato di conservazione delle carte secondo criteri standardizzati, assegnando un punteggio e sigillando l’oggetto in una custodia protettiva. In questo modo la carta smette di essere solo posseduta e diventa certificata, rendendo il suo valore confrontabile e riconoscibile all’interno del mercato, piattaforme di scambio, fiere, comunità online. L’oggetto diventa così parte di un’infrastruttura che ne rende il valore visibile, confrontabile, negoziabile.

Serve qualcuno che guardi

È in questo passaggio che lo sguardo dell’antropologo Arjun Appadurai diventa particolarmente utile. Parla di regimi di valore, ossia contesti culturali e sociali che stabiliscono cosa conta, perché conta e per chi. Il valore non è una proprietà intrinseca dell’oggetto, ma il risultato delle relazioni che lo attraversano.

Le carte Pokémon non valgono solo perché sono rare, ma perché circolano all’interno di un regime di valore condiviso, fatto di conoscenze comuni, criteri riconosciuti, narrazioni consolidate. Saper leggere una carta, distinguerne l’edizione, comprenderne lo stato di conservazione significa partecipare a quel regime. Il collezionismo, in questo senso, non è semplice accumulazione, ma una pratica culturale che produce ordine e significato.

Quello che non vogliamo perdere

Ridurre il fenomeno alla nostalgia sarebbe però insufficiente. Le carte non vengono recuperate soltanto perché ricordano l’infanzia, ma perché permettono di stabilizzare quel ricordo, di trasformarlo in qualcosa di misurabile, certificabile, durevole. In una fase storica segnata dall’incertezza economica e dalla discontinuità delle traiettorie personali, il passato diventa un terreno più controllabile del futuro.

Le carte diventano così dispositivi di continuità: tengono insieme ciò che si è stati e ciò che si è diventati. Non è un caso che a collezionarle oggi siano soprattutto adulti, spesso lontani dal gioco in senso stretto, ma ancora legati al bisogno di attribuire valore a ciò che li ha formati.

Non tutte le partite finiscono allo stesso modo

Il rischio emerge quando questa complessità viene semplificata. I casi eccezionali, amplificati dal racconto mediatico, possono trasformare il collezionismo in una promessa implicita di riscatto economico. Ma il mercato resta selettivo e diseguale: poche carte concentrano gran parte del valore, mentre la maggioranza resta priva di rilevanza economica.

Confondere il significato culturale di questi oggetti con una garanzia di rendimento significa attribuire loro una funzione che non possono sostenere. Forse il successo non sta soltanto nel prezzo che possono raggiungere, ma nella loro capacità di attraversare il tempo senza perdere riconoscibilità. In un presente che cambia rapidamente continuano a offrire un linguaggio condiviso, una memoria comune, un terreno su cui tornare a orientarsi. Che questo valore venga oggi misurato anche economicamente fa parte del fenomeno, ma non ne esaurisce il significato. Prima di diventare beni, queste carte restano oggetti che tengono insieme passato e presente, gioco e identità.

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