Gioventù in crisi: la violenza giovanile segnale di un guasto sociale, non morale

I dati della Criminalpol indicano un preoccupante aumento di omicidi commessi e subiti da minorenni in Italia. L'analisi del criminologo Sergio Grossi respinge l'idea di “degenerazione morale” e inquadra l'escalation di violenza come un sintomo di profonde fratture sociali: la mancanza di futuro, comunità e figure adulte autorevoli spinge i giovani a cercare identità e riconoscimento nella trasgressione. La soluzione proposta: sostituire la repressione con la costruzione di spazi di fiducia, appartenenza e protagonismo.
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L’allarme sulla violenza giovanile è ai massimi storici. Nonostante il richiamo al passato, come l’iconico “Gioventù bruciata” di James Dean, la situazione attuale in Italia mostra un preoccupante peggioramento. I dati non lasciano spazio a facili consolazioni: nel 2024, la percentuale di omicidi commessi da minorenni è balzata dall’iniziale 4% a un netto 11-11,8% del totale, con un aumento anche delle vittime sotto i 18 anni.

Ma secondo esperti come il professor Sergio Grossi, criminologo dell’Università di New York, non siamo di fronte a un’“epidemia di mostri”, bensì a un profondo segnale di disagio strutturale della società.

La Violenza Parla di Comunità, Non di Devianza

L’interpretazione comune tende a liquidare la violenza giovanile come un semplice fallimento educativo o una degenerazione morale individuale. Una lettura, osserva Grossi, che “consente agli adulti di sentirsi esterni al problema.

Tuttavia, il professore di criminologia ribalta la prospettiva, sottolineando che “i comportamenti violenti o estremi tra i giovani non possono essere letti come semplice devianza individuale. Essi nascono spesso da contesti di precarietà sociale, disgregazione comunitaria e mancanza di spazi reali in cui sentirsi parte di qualcosa”. E aggiunge con forza: “La violenza parla più della società che dell’individuo”.

Dagli studi comparativi condotti da Grossi tra Stati Uniti, America Latina ed Europa, emerge un punto chiave: “Quando una società offre poche opportunità per costruire un’identità positiva, alcuni giovani cercano riconoscimento altrove, nel rischio, nella trasgressione, nella violenza”.

Grossi cita gli esempi concreti delle carceri APAC in Brasile e dei “moduli di rispetto” in Spagna e Francia. Queste esperienze dimostrano che: “La violenza è spesso il prodotto di ambienti privi di comunità, riconoscimento, ascolto e prospettive di futuro. Quando si restituiscono questi elementi, essa diminuisce”.

Traumi e confini

Un altro elemento centrale del pensiero di Grossi riguarda il legame tra violenza e trauma non elaborato. La violenza giovanile è spesso l’esito di storie di vita segnate da traumi e dall’assenza di modelli relazionali sani. In assenza di un sistema narrativo stabile e di figure adulte autorevoli (non gerarchiche, ma credibili e presenti), i limiti e i confini nelle relazioni perdono la loro funzione protettiva. Non si tratterebbe solo di immaturità emotiva, ma di biografie segnate da precarietà e assenza di orizzonti condivisi: “Laddove il futuro appare incerto o inaccessibile i confini perdono la loro funzione regolativa: essi presuppongono un investimento temporale, una progettualità, la possibilità di immaginarsi all’interno di relazioni durevoli. Nei giovani che operano all’interno di contesti impoveriti, tanto dal punto di vista socioeconomico quanto simbolico, la capacità di percepire il limite come elemento di cura e di protezione risulta spesso compromessa”.

Riguardo alla percezione del limite, dietro esiste un problema culturale. Secondo lo studioso “in molte società contemporanee è venuto meno un linguaggio collettivo dei limiti” e i ragazzi navigano tra richieste di responsabilità e modelli sociali basati su successo immediato e iper-consumo, facendo apparire il limite come un ostacolo arbitrario.

Questo è aggravato dall’erosione dell’autorità adulta: “Molti giovani non percepiscono gli adulti come punti di riferimento credibili o presenti. Non perché non rispettino l’autorità, ma perché spesso trovano incoerenza tra ciò che gli adulti predicano e ciò che praticano”. E sulla violenza come linguaggio Grossi spiega: “L’aggressione non è solo distruttiva, ma anche comunicativa: diventa un linguaggio laddove mancano parole sociali sufficienti”.

L’erosione dell’empatia come autodifesa

Ma ancora più significativo è quanto lo studioso dice a proposito dell’apparente perdita dei empatia. L’empatia, cioè, non scompare, ma la sua riduzione è un meccanismo di autodifesa dall’eccesso di stimoli e una conseguenza della competizione sfrenata che frammenta la comunità, impedendo alle relazioni di svilupparsi con il tempo e la continuità necessari: “Quando l’altro appare come un concorrente più che un alleato, la vulnerabilità diventa un difetto da correggere, non una dimensione umana da accogliere”.

La soluzione: restituire comunità e futuro

Per ridurre la violenza e la devianza la via, dunque, non è la repressione. Per invertire la rotta il professor Grossi suggerisce un cambio di paradigma radicale: non servono controlli più severi, ma spazi che liberano, non reprimono. “La responsabilità nasce dalla fiducia e non dalla sorveglianza”. Esempi internazionali dimostrano che l’approccio comunitario, come le Prigioni APAC brasiliane o i Moduli di Rispetto di Spagna e Francia, sembra essere il più efficace: nel primo caso si tratta di Istituti senza polizia, fondati su responsabilità personale e fiducia, dove la violenza viene svuotata della sua funzione, nel secondo, di micro-comunità regolative basate su cooperazione e partecipazione. Entrambi presuppongono un investimento in spazi educativi e sociali: “Quando riconosciamo i giovani come soggetti relazionali, quando offriamo loro spazi, opportunità e comunità, la violenza perde significato”.

Restituire stabilità materiale, accesso all’istruzione e la possibilità di partecipare attivamente ai processi decisionali è fondamentale. In definitiva Grossi afferma che la costruzione di spazi comunitari, educativi, culturali e creativi offre ai giovani possibilità di tornare protagonisti, riducendo l’uso della violenza e promuovendo una società più solidale.

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