
Quasi casualmente ho avuto l’opportunità di lavorare nella trasmissione “BellaMa‘”, che va in onda nel primo pomeriggio su Rai Due. Si tratta di un varietà televisivo con alcune formule del rotocalco. Il format prevede una competizione a colpi di reels (brevi video per i social) tra i giovani della Generazione Z, coloro che sono nati nel nuovo millennio e i Boomer, ossia coloro che sono nati entro il 1970. La gara è intervallata da interviste a ospiti vip e da rubriche che riguardano la danza, la religione, la musica, l’educazione civica e tanto altro. Insomma, lo scopo è garantire al pubblico ina atmosfera festosa per tutto il corso di ogni puntata.
In un primo momento ho avuto il dubbio se accettare o meno. Ma le remore iniziali sono subito finite in archivio. In fondo quanti giovani oggi possono vantare un’esperienza simile nel curriculum? Comunque vada, lavorare in tv ti segna, ti fa crescere notevolmente. Bisogna anzitutto capire che, qualsiasi sia il tuo ruolo, si tratta di un lavoro, retribuito, che ti mette in contatto con tante maestranze, tantissime. E anche il più piccolo ritardo, la più minuta noncuranza, causa problemi a tutti gli altri. Come nella più classica delle catene di montaggio, ogni ruolo ha importanza e deve essere svolto al meglio, professionalmente. I tempi sono veramente serrati.
Giovani in tv: tra sogno e disincanto
Ma che cosa significa per un giovane essere in tv? In questo specifico programma si respira sempre un’aria di confronto e di scontro tra due modi di vivere e concepire la televisione. Chi è nato, o cresciuto, avendo la televisione generalista come riferimento affronta quest’avventura come se fosse un sogno americano che si realizza, un punto d’arrivo, una destinazione che possa sconvolgere una vita fatta di “normalità” e fatiche.
I più giovani invece partono con la disillusione in tasca. Anche chi è nel cast fin dalla prima edizione crede che l’esperienza televisiva sia principalmente un’appendice, un modo per avere un minimo di credibilità per fare altro. La televisione non è per i giovani un riferimento né identitario, né di carriera, ma un mezzo per entrare in certi ambienti per vedere che aria tira. Da un lato gareggia l’illusione artefatta dello spettacolo televisivo, dall’altro la volontà di andare oltre il “velo di Maya”.
Una tv senza giovani spettatori
Non a caso, tutto questo si riflette anche sull’audience, che segue questo genere di programmi e che esclude quasi del tutto gli Under 35. Ed essendo il nostro un servizio pubblico, il contenitore che proponiamo deve rispecchiare la saggezza e i valori di chi sceglie di darci fiducia. E in maniera piuttosto bizzarra noi Gen Z ci ritroviamo a cantare Fred Buscaglione o Tony Renis come se fossero da sempre i nostri idoli o a ballare sulle note di Mina ed Heather Parisi come se negli Anni ’60-’70 ci fossimo stati anche noi.
Tutto ciò da un lato contribuisce a diffondere tra noi del cast una cultura televisiva essenziale se si vuole pensare di lavorare in questo settore. Come per ogni lavoro, anche qui serve una preparazione teorica, riferimenti cui attingere. E in tal senso il bello del programma è anche questo: una lezione di storia della tv e della musica continua, un grande scatolone dei ricordi per approfondire gli argomenti più disparati.
D’altro canto, però, quando gli over 60 che guardano la tv saremo noi, che ne sarà del servizio pubblico? Esisterà ancora un universo di riferimenti cui attingere? La Storia proseguirà regolarmente il suo corso? La sensazione attuale è che ci sia un grande stallo, uno stop di cui facciamo le spese principalmente noi, che restiamo ancorati a una tradizione che non ci appartiene e che, al tempo stesso, non ci consente di evolvere. La generazione successiva alla nostra ormai neanche sa cosa sia la tv, immersa com’è nella frammentazione mediale di cui parlano i sociologi contemporanei.
Fare la gavetta oggi significa cercare di farla, cercare di avere un posto in cui spendere i propri talenti e risorse. Ma se non viene riconosciuta la mia identità, come posso pensare di far valere le mie opinioni e necessità? E forse proprio per questo la maggior parte dei giovani vive la tv e il suo universo semantico come una terra di mezzo.
Ripensare il servizio pubblico per le nuove generazioni. Meno share, più sperimentazione
A fronte di questa breve riflessione, non sarebbe forse l’ora di sacrificare un po’ di share, l’unico vero totem che al momento garantisce la riuscita e la qualità di un programma televisivo, in nome di una tv che provi a sperimentare? Esiste un concetto, quello di microlearning, che si rifà all’idea che sia sempre possibile muoversi in territori già sondati, ma con l’intenzione di scovare ogni volta un nuovo terreno. Si tratta di un insegnamento graduale, una continua lezione che allo stesso tempo ci fa ripassare, ma anche approfondire e confrontare le nozioni. Che possa essere questa la chiave da usare affinché si avvicinino i più grandi all’universo giovanile? Non sarebbe questo un modo al contempo per avvicinare le generazioni e garantire il ricambio? A me piacerebbe poter contare su un servizio televisivo pubblico quando avrò sessant’anni, ma vorrei cantare “I Cani”, i “Radiohead” o ballare la “Tekno”, come ho fatto da ragazzo.



