Il rapporto tra intestino e cervello può spiegare l’autismo? La parola alla dottoressa Miriana Marasco

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Negli ultimi anni la scienza ha iniziato a riscrivere una delle mappe più profonde dell’essere umano: quella che collega l’intestino al cervello. L’asse microbiota–intestino–cervello, per lungo tempo ignorato o confinato alla ricerca di nicchia, oggi si sta imponendo come uno dei campi più promettenti nella comprensione dei disturbi psichiatrici e del neurosviluppo.
Non è più possibile trattare il cervello come un organo isolato. Le nuove evidenze dimostrano infatti che ciò che accade nel nostro intestino — la sua flora batterica, il suo livello di infiammazione, le sue vulnerabilità — può influenzare in modo diretto emozioni, comportamento, capacità cognitive e perfino lo sviluppo neurologico nei primi anni di vita.

Tra le aree di ricerca più sorprendenti c’è quella che riguarda lo spettro dell’autismo, una condizione complessa e multiforme le cui cause restano in parte ancora insondate. Numerosi studi hanno rivelato che molte persone con diagnosi di autismo presentano disturbi gastrointestinali significativi e alterazioni marcate del microbiota. Non si tratta di un dettaglio marginale: queste irregolarità sembrano correlate a meccanismi infiammatori, immunitari e neurochimici capaci di influenzare la comunicazione tra intestino e cervello, con potenziali effetti su comportamento, gestione dello stress, sonno e regolazione emotiva.

Parallelamente, una parte della discussione pubblica — soprattutto sui social — tende spesso a semplificare eccessivamente il tema, promettendo “cure intestinali” che nulla hanno a che fare con la realtà scientifica. Per questo è importante riportare la conversazione su un piano serio, equilibrato e basato sulle evidenze: l’intestino non “spiega” l’autismo, ma può contribuire a modellarne alcuni aspetti clinici; non offre soluzioni miracolose, ma nuove piste di intervento complementari e potenzialmente preziose.

Da qui nasce l’intervista alla dottoressa Miriana Marasco, psicologa clinica e tecnico ABA, che ha dedicato la sua tesi proprio allo studio dell’asse microbiota–intestino–cervello nei disturbi psichiatrici, neurodegenerativi e del neurosviluppo. Con lei esploriamo ciò che la scienza sa, ciò che sta emergendo e ciò che — con onestà intellettuale — è ancora prematuro affermare.

L’obiettivo: capire come questa nuova prospettiva biologica possa dialogare con il mondo della psicologia e dell’intervento educativo, offrendo strumenti concreti senza alimentare false speranze.

Come nasce il suo interesse per l’intestino? È un tema poco comune negli studi psicologici.

«All’inizio mi ha colpito una semplice osservazione: ciò che mangiamo influenza in modo evidente come ci sentiamo. Approfondendo, ho scoperto una letteratura scientifica sorprendentemente ricca. Uno dei dati più rilevanti è che l’intestino è oggi riconosciuto come un attore cruciale nella regolazione di numerosi processi fisiologici e neurologici. Le sue alterazioni sono state associate a condizioni come autismo, ansia, depressione e patologie neurodegenerative

Ha incontrato difficoltà durante la ricerca?

«È stato necessario un lavoro meticoloso di analisi della letteratura. Pur trattandosi di un ambito emergente, gli studi sono numerosi e in continuo aumento. Molti risultati – soprattutto dai modelli animali – sono affascinanti, ma spesso ancora lontani dall’applicazione clinica.
Per questo ritengo essenziale mantenere un approccio critico: distinguere ciò che è evidenza robusta da ciò che è ancora ipotesi preliminare ed evitare semplificazioni eccessive. Nessun singolo fattore, per quanto importante, è sufficiente a spiegare la complessità dei disturbi psichici e neurologici.
»

In termini semplici, cosa succede al cervello quando il microbiota è alterato?

«Un microbiota in equilibrio lavora in armonia con il cervello: produce metaboliti utili, modula la risposta allo stress e contribuisce persino alla regolazione del tono dell’umore.
Quando si altera
– a causa di stress prolungato, dieta scorretta, uso di antibiotici, infiammazione o disfunzioni immunitarie – si innesca una catena di effetti: l’intestino si infiamma, la sua barriera diventa più permeabile e molecole nocive possono entrare in circolo.
Questo può indebolire anche le barriere che proteggono il cervello, consentendo ai segnali infiammatori di raggiungere il Sistema Nervoso Centrale e influenzarne il funzionamento

Possiamo dire che l’intestino è davvero un “secondo cervello”?

«In una certa misura sì. Il Sistema Nervoso Enterico comprende circa 500 milioni di neuroni distribuiti lungo il tratto gastrointestinale. È in grado di funzionare autonomamente, utilizza gli stessi neurotrasmettitori del Sistema Nervoso Centrale e comunica costantemente con esso.
Questa rete dà origine a una comunicazione bidirezionale continua tra cervello e intestino, con un impatto diretto su emozioni, comportamento e benessere generale

Alla luce delle evidenze, ha senso includere un intervento sul microbiota nei piani terapeutici dedicati all’autismo?

«Sì, se considerato come intervento complementare all’interno di un progetto terapeutico ampio. Molti bambini nello spettro autistico presentano disturbi gastrointestinali significativi, e diversi studi mostrano alterazioni specifiche del microbiota associate all’autismo.
Non si tratta di una soluzione autonoma o risolutiva, ma il microbiota rappresenta certamente un potenziale target per migliorare la qualità di vita e alcuni sintomi correlati.
»

L’autismo è un tema delicato e spesso vittima di speculazioni. Come si affronta questa complessità senza creare false speranze?

«È un punto fondamentale. Bisogna sempre considerare l’impatto emotivo che nuove informazioni possono avere sui caregiver. La diagnosi, le incertezze sulle cause, il timore per il futuro e la difficoltà nel misurare i progressi costituiscono un carico importante.
Per questo è essenziale evitare promesse o semplificazioni ingannevoli.
La ricerca sul microbiota non fornisce “cure miracolose”, ma offre un tassello in più per comprendere la complessa interazione tra corpo e mente. È un’area che apre a nuove possibilità d’intervento, anche preventive, se integrata con approcci psicologici, educativi e ambientali

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