
Al Capalbio Film Festival è arrivata in anteprima nazionale Tre Ciotole, adattamento cinematografico del romanzo di Michela Murgia diretto da Isabel Coixet e scritto con Enrico Audenino. Il film — coproduzione italo-spagnola firmata da Cattleya e Ruvido Produzioni — vede protagonisti una bravissima Alba Rohrwacher e un magistrale Elio Germano nei panni di Marta e Antonio, coppia “spezzata” da un litigio apparentemente banale, ma in cui la bravura degli attori lascia trasparire anni di incomprensioni non dette. Da quel momento le loro traiettorie si dividono: Marta si chiude nel silenzio, Antonio, chef in piena ascesa, si rifugia nel lavoro. Finché la perdita di appetito di lei, inizialmente segno di un dolore privato, si rivela il sintomo di una malattia grave e il film scivola verso una dimensione più radicale: dalla fine di un amore al confronto con la fine tout court, con il bisogno di restituire senso al tempo che resta.
Coixet, che qui lavora quasi controvento rispetto al sentimentalismo facile, costruisce un racconto contemplativo che avanza come per sottrazione. La regia si distingue così per una delicatezza rara: piccoli spostamenti di macchina, quasi impercettibili, catturano la vulnerabilità dei personaggi senza violarne l’intimità. Da notare l’uso degli specchi in alcune inquadrature, che sdoppiano i protagonisti o ne restituiscono profili nascosti. Memorabile, in questo senso, il primo re-incontro tra Marta e Antonio dopo la separazione. In quel momento due operai passano per caso di lì trasportando uno specchio in cui i protagonisti sono riflessi per un momento, suggerendo un’identità rifratta, ferita e allo stesso tempo mettendo in relazione un prima e un dopo, un al di qua e un al di là.
Anche la scelta musicale rispecchia questo tocco minimale. La colonna sonora rinuncia a orchestrazioni invadenti e si affida soprattutto a brani centrati sulla voce, accompagnata da pochi strumenti. Questa rarefazione sonora amplifica l’intimità e la sospensione emotiva, permettendo allo spettatore di restare vicino ai respiri dei personaggi.
In questo percorso silenzioso entra Agostino (Francesco Carril), collega e professore di filosofia. Con Marta, insegnante di educazione fisica, nasce un legame lieve, fatto di scambi intellettuali più che di romanticismo. In una scena chiave, Agostino le regala un libro di Ludwig Feuerbach e le cita la celebre massima: “L’uomo è ciò che mangia”. Per Marta si tratta di un invito implicito a tornare ad avere cura di sé, a partire da un gesto elementare e quotidiano come il cibo. Da quel momento Marta, che fino ad allora mangiava disordinatamente, inizia a preparare i suoi pasti con maggiore attenzione, usando proprio le tre ciotole comparse nella prima parte del film, oggetti umili vinti con i punti al supermercato che diventano ora simboli e strumenti di una rinnovata volontà di vivere. Le ciotole diventano parte di un rituale di cura di sé e di consapevolezza per affrontare la malattia, la fragilità e la crisi esistenziale. Un gesto di resistenza e di riappropriazione del proprio corpo e del proprio modo di vivere.
Questo piccolo rito domestico non è solo un dettaglio realistico, diventa la traduzione concreta di una riflessione filosofica sul senso della vita. Il fatto che la malattia che la colpisce sia un tumore al fegato carica il gesto di ulteriore intensità tragica. L’organo che filtra e trasforma ciò che mangiamo, simbolicamente legato al nutrimento e alla vita, è quello che si ammala. Curare i pasti, allora, non è guarire, ma affermare una dignità estrema, riconoscere che il nutrimento, pur dentro la malattia, può essere un atto di resistenza e di presenza a se stessi. La regia di Isabel Coixet accompagna questo processo con tatto, senza fare di Agostino un deus ex machina sentimentale, ma una figura di passaggio che apre una fessura di consapevolezza.
Non tutto, però, è impeccabile. Qualche dialogo interiore tradisce l’origine letteraria e su schermo può risultare leggermente artificioso. Ma il terzo atto trova una forza rara: la parola si ritira e restano corpi, silenzi, sguardi che parlano da soli. Rohrwacher e Germano interpretano la fragilità senza compiacimenti, mentre Coixet conferma un talento raro nel filmare ciò che non si vede, le crepe tra due esseri umani quando l’amore si spezza e la malattia ridisegna i confini dell’esistenza.
Tre Ciotole uscirà nelle sale italiane il 9 ottobre: un film da vedere per chi cerca nel cinema non solo un racconto, ma un modo di guardare e forse di riabitare il dolore e la vita.