Zvanì: il Pascoli intimo raccontato (in prosa) da Giuseppe Piccioni

Al Festival del cinema di Capalbio l’anteprima del film che uscirà nelle sale il 2 ottobre
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Un treno attraversa l’Italia del 1912. Porta con sé la salma di Giovanni Pascoli e, con essa, il peso di una vita breve e tormentata da lutti familiari, affetti feriti, versi che hanno saputo farsi eco universale. Su quel treno viaggia anche la memoria, affidata alla sorella Mariù, che rievoca immagini, traumi, incontri, passioni. È un viaggio anche per lo spettatore, che, come guardando passare una serie di vagoni, segue la vicenda di Giovanni dalla giovinezza in episodi chiave, legati l’uno all’altro in uno scorrere al tempo stesso lineare e sobbalzante. Questa la struttura narrativa di Zvanì – Il romanzo famigliare di Giovanni Pascoli, presentato il 27 settembre in anteprima al Festival del cinema di Capalbio e in uscita nelle sale italiane il prossimo 2 ottobre.

Già il titolo fornisce due indizi chiari della prospettiva del film. Da un lato “Zvanì”, il diminutivo affettuoso con cui in Romagna si chiama Giovanni, che diventa la chiave per restituire al poeta la sua dimensione più fragile e domestica, quella di un uomo prima che di un monumento letterario. Di un fanciullo reale, prima che del fanciullino poetico. Dall’altro la definizione di “romanzo famigliare”, da intendersi qui come un vero e proprio manifesto metodologico. Giuseppe Piccioni, con gli sceneggiatori Sandro Petraglia, Lorenzo Bagnatori ed Eleonora Bordi, evita il biopic convenzionale, ma non scade nella pretesa di fare cinema “in versi”. Non c’è qui il resoconto cronologico e didascalico di una carriera poetica, ma un romanzo in immagini, fatto di ellissi, sguardi sospesi, episodi trattenuti come lampi di memoria. La relazione conflittuale con Carducci o quella, più sottilmente ipocrita, con D’Annunzio sono restituite con misura, senza cedere al gossip letterario. Il legame con le sorelle è raccontato con lucidità, senza indulgere in delicatezze agiografiche né in semplificazioni scandalistiche.

L'attore Federico Cesari interpreta Pascoli
L’attore Federico Cesari interpreta Pascoli

Il film, prodotto da Rai Fiction, MeMo Films, Academy Two e Rai Cinema, si regge su un cast corale impeccabile: Federico Cesari interpreta un Pascoli giovane e tormentato, affiancato da Benedetta Porcaroli, Margherita Buy, Riccardo Scamarcio, Sandra Ceccarelli e Liliana Bottone. Le loro prove, trattenute e mai sopra le righe, si inseriscono in un tessuto narrativo che privilegia il silenzio, il gesto minimo, lo spazio dell’assenza. La parola poetica non resta confinata a citazione ornamentale. Bensì è un elemento del racconto, corpo vivo che accompagna le immagini, controcanto che illumina e incide la linearità della prosa filmica.

Il regista Giuseppe Piccioni ©Laila Pozzo
Il regista Giuseppe Piccioni
©Laila Pozzo

Piccioni evita con decisione la retorica celebrativa. Non c’è il Pascoli delle antologie scolastiche, ma un uomo segnato dall’omicidio del padre, dal vincolo soffocante con le sorelle Ida e Mariù, dall’impegno politico mai del tutto conciliato con la vocazione letteraria. Il viaggio funebre diventa dispositivo narrativo per tessere una memoria discontinua, dove le omissioni sono eloquenti quanto le parole, e i vuoti affidati allo spettatore contano quanto i ricordi che riaffiorano.

Al tempo stesso, questa scelta può risultare ardua per chi non è avvezzo a una narrazione rarefatta o non conosca bene il protagonista del romanzo di Piccioni. Alcuni passaggi biografici restano solo accennati, alcune relazioni non si compongono in un quadro unitario. È il prezzo da pagare per una forma che vuole restare fedele a una sensibilità narrativa più che a un resoconto cronachistico. Il film procede su un crinale sottile, tra prosa e lirismo. Ma è in questa sospensione che Zvanì trova la sua verità; nelle pause, nei paesaggi che diventano interni dell’anima, nei silenzi che pesano più dei dialoghi.

L’unico limite, forse, è non aver osato di più sul piano sonoro. Il mezzo cinematografico avrebbe potuto restituire la forza delle onomatopee pascoliane (il “gre gre di ranelle”, il “bubbolìo” del temporale), amplificando quel gioco fonico che appartiene all’essenza stessa della sua poesia. Ma la scelta di Piccioni sembra consapevole, e forse necessaria. I versi restano incesellati nel tessuto narrativo, senza sovrastarlo. La carriera letteraria e la tecnica poetica rimangono in secondo piano rispetto alla vita privata, vero centro del romanzo famigliare.

Con Zvanì, Piccioni firma un’opera che dialoga con la letteratura e la memoria collettiva, offrendo uno sguardo nuovo su una figura centrale della nostra tradizione. Al Festival di Capalbio ha suscitato interesse e dibattito, segno che l’operazione, pur rischiosa, intercetta un bisogno di tornare a interrogarsi sul rapporto tra parola e immagine.

Si esce dalla sala con la sensazione di aver incontrato non il mito scolastico del Pascoli, ma Zvanì, fragile, ferito, umano, e proprio per questo universale. È forse qui la forza più grande del film di Piccioni: restituire la poesia alla vita, e la vita alla poesia, riuscendo a colmare la distanza tra mito e quotidianità, raccontando una storia, come fa il grande cinema, nella dimensione più intima di un animo poetico.

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