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Green o greenwashing? Il 60% delle aziende ci casca

Sempre più aziende si definiscono green, ma spesso dietro gli slogan c’è solo fumo. È il fenomeno del “greenwashing”, che cavalca la sensibilità ambientale dei consumatori senza un reale impegno
mercoledì, 10 Settembre 2025
3 minuti di lettura

Oggi la maggior parte delle aziende si proclama eco-friendly e green. Peccato che, troppo spesso, l’unico “verde” che interessa sia quello dei dollari, aumentando i profitti mascherandosi dietro campagne di greenwashing. Questo termine, che letteralmente significa “dipingere di verde”, indica una strategia di comunicazione pensata per far sembrare un’azienda più sostenibile di quanto non lo sia. Di esempi ne vediamo ogni giorno. Etichette piene di parole come eco, green, sostenibile, buttate lì senza spiegazioni concrete. Confezioni colorate di verde, piene di foglie e fiori, che ci illudono di fare acquisti a basso impatto ambientale. Spot che esaltano un singolo prodotto “pulito” mentre il resto della produzione continua a inquinare. O, ancora, promesse di risultati futuri che nessuno verificherà mai.

L’autorità italiana (AGCM) ha, infatti, sanzionato aziende anche di grande notorietà per comunicazioni ingannevoli green, in attesa di regole più stringenti della UE entro il 2026/2029. Ma secondo Il Codacons, sebbene l’Antitrust stia svolgendo “un’intensa attività di tutela”, con interventi sanzionatori in diversi settori, dalle telecomunicazioni all’energia, il potere deterrente delle multe si è ormai ridotto drasticamente. “Le sanzioni inflitte non bastano più – denuncia il Codacons –. Le grandi aziende le inseriscono nei bilanci come normali rischi d’impresa, consapevoli che i profitti derivanti da pratiche scorrette sono di gran lunga superiori al costo delle sanzioni”.

Quando il verde “puzza” di marketing

Secondo una indagine di Forbes 2000, condotta su 293 aziende, alcune tra le più grandi del mondo, il 60% delle imprese sono cadute almeno una volta in comunicazioni a impronta green non valide o ingannevoli (dati Nielsen), mentre da un studio della Commissione europea, condotta sotto il coordinamento della Ipcen (Consumer Protection and Enforcement Network), si ricava che nel 42% dei casi le autorità abbiano ritenuto ingannevoli e non veritiere le comunicazioni green e abbiano accertato il compimento di pratiche commerciali sleali. In particolare, in oltre il 50% dei casi, le aziende non hanno dato ai consumatori informazioni sufficienti per valutare quanto comunicato in materia di ecosostenibilità. Nel 37% dei casi il claim conteneva formulazioni generiche, come ‘rispettoso dell’ambiente’ o ‘eco’ e nel 59% dei casi non venivano esplicitati elementi a supporto di quanto dichiarato.

La questione vera che non va dimenticata è che il greenwashing non è solo una “furbata” del marketing, è un grosso limite al vero cambiamento. Fingere sostenibilità è un autogol che ci infliggiamo e che pagheremo a caro prezzo. Certificazioni, dati concreti e processi trasparenti devono essere le bussole per orientarci e premiare chi fa davvero la differenza è l’unico modo per cercare di invertire un processo che altrimenti avrà scenari catastrofici.

Chi deve controllare

La regola è semplice: se mancano dati, certificazioni e trasparenza, siamo quasi certamente davanti a una verniciata di verde. A vigilare sono sia l’AGCOM (l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni), competente soprattutto su media, pubblicità e informazione e che valuta se le comunicazioni commerciali contengano “environmental claims” scorretti (es. spot TV, siti web, bilanci di sostenibilità diffusi al pubblico), sia l’AGCM (l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato), che, invece, si occupa di pratiche commerciali scorrette in senso più ampio. E’ quella che più spesso sanziona il greenwashing, soprattutto quando riguarda etichette, packaging, claim di sostenibilità su prodotti, etc.. Esempi famosi di sanzioni sono quella a Eni per “diesel green”, a società energetiche per spot su “energia 100% verde”, a marchi di moda per “collezioni sostenibili”.

Due esempi di aziende davvero eco

Per fortuna non tutte recitano questa parte. Alcune dimostrano che la sostenibilità non solo è possibile ma è addirittura redditizia. Ikea, ad esempio, negli ultimi anni ha investito in maniera incisiva nelle energie rinnovabili, tant’è che oggi una parte consistente dei suoi negozi e stabilimenti è alimentata da fonti pulite. L’azienda ha anche ridotto progressivamente le emissioni legate ai trasporti e quasi tutto il legno che utilizza proviene da foreste certificate o da materiali riciclati. Con il progetto “Ikea Preowned” l’azienda svedese ha già rimesso in circolo migliaia di mobili usati, incoraggiando i clienti a scegliere il riuso invece del nuovo. Non mancano nemmeno iniziative sociali, come il sostegno a programmi di accesso all’energia pulita in comunità svantaggiate.

Patagonia è invece un brand che ha fatto della sostenibilità la propria identità. Da decenni devolve una parte fissa dei ricavi a progetti ambientali in tutto il mondo attraverso l’iniziativa cui aderisce insieme ad altri,”1% for the Planet”, che devolve l’1% dei guadagni annuali a ONG e associazioni locali. Nel 2022 il fondatore Yvon Chouinard ha compiuto un gesto senza precedenti: ha trasferito l’azienda alle no profit Patagonia Purpose Trust e Holdfast Collective, affinché i futuri profitti vadano alla lotta contro il cambiamento climatico. Inoltre, da tempo l’impresa sperimenta materiali alternativi come il cotone organico e il poliestere riciclato e ha ridotto sensibilmente i consumi energetici lungo la filiera diventando un simbolo dell’attivismo aziendale.

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