Immaginate di camminare per strada e di trovare all’improvviso a una fermata dell’autobus un salotto curato nei minimi dettagli, con divani, tavolini e sedie. La vostra reazione sarebbe certamente di curiosità e quell’immagine vi rimarrebbe impressa nella memoria. E’ un eccellente esempio di guerriglia marketing, in questo caso firmato Ikea.
Cosa si intende per “guerriglia marketing”
Il guerriglia marketing è una forma di pubblicità non convenzionale, spesso a basso costo, che utilizza la creatività per stabilire un legame con il consumatore, che negli anni ha ormai sviluppato una forte avversione verso la pubblicità tradizionale, percepita più come un fastidio che come un’opportunità per scoprire nuovi prodotti. Ciò avviene perché i media tradizionali sono diventati invasivi e ripetitivi. Basti pensare a quante volte veniamo interrotti da spot pubblicitari durante la visione di un video o di un film, oppure mentre navighiamo su internet, sommersi da pop-up e banner. Nessuno, di certo, si entusiasma al pensiero di vedere un’altra pubblicità. Questa dinamica si sta rivelando inefficace per i venditori, che spesso investono male i loro fondi, affidandosi esclusivamente alla ripetizione ossessiva degli annunci, che, alla lunga, vengono semplicemente ignorati. Possiamo, quindi, affermare che il guerriglia marketing rappresenta tutto ciò che la pubblicità tradizionale non garantisce più: stimola interesse e curiosità nel consumatore, generando coinvolgimento emotivo che si traduce in passaparola e in una diffusione spontanea e virale dei contenuti.
Le diverse tipologie di guerriglia marketing
A seconda del prodotto da promuovere e del luogo scelto per farlo, possiamo distinguere diversi sottogruppi. Lo “Street marketing”, ad esempio, comprende installazioni, murales, flash mob, persone mascherate, cartelloni in movimento; tutto ciò che è possibile organizzare “in città” con l’obiettivo di sorprendere nel contesto quotidiano. L’”Ambient marketing”, invece, consiste nella modifica di elementi architettonici già presenti sul territorio, come fontane, panchine o fermate dell’autobus. Il “Viral marketing” sceglie come campo d’azione la rete. Si realizzano foto, video, meme e contenuti coinvolgenti con l’obiettivo di renderli virali il più possibile. Infine, l’”Experiential marketing”, sempre più diffuso, si basa sulla creazione di esperienze dirette e interattive per i consumatori, come eventi o installazioni.
La forma prediletta dagli street artist
Tutti questi approcci hanno in comune un elemento fondamentale: l’estrema originalità. Ed è proprio su questo terreno che tale pubblicità si impone con forza, poiché il consumatore è ormai esausto di essere trattato con superficialità. Ha bisogno di essere stimolato, incuriosito e coinvolto. In caso contrario l’unica reazione possibile sarà ignorare automaticamente ogni messaggio, senza prestarvi attenzione. Non è un caso che numerosi artisti abbiano scelto questo linguaggio per trasmettere messaggi di natura politica. Si pensi, ad esempio, a Banksy, che attraverso i suoi murales disseminati in tutto il mondo offre al cittadino la possibilità di cogliere significati profondi dietro un semplice graffito su un edificio. E di questi esempi virtuosi ce ne sono diversi, a cominciare dal nostrano Moby Dick, estremamente impegnato con la sua street art in campo animalista.
I casi più eclatanti di guerriglia marketing
Uno dei casi di studio più emblematici è rappresentato dallo scontro tra la casa di moda Celine e lo street artist Kidult. Quest’ultimo ha più volte criticato i brand di lusso che, a suo dire, sfruttano la cultura street a fini commerciali, come nel caso di interventi provocatori come l’imbrattamento delle vetrine con graffiti. Nel caso specifico di Celine, la vetrina venne contrassegnata da una grande X. Tuttavia, il marchio fu abile nel trasformare questo gesto in un’operazione pubblicitaria: produsse e mise in vendita magliette raffiguranti la vetrina vandalizzata, a prezzi elevati. Kidult, per tutta risposta, replicò l’idea, commercializzando lo stesso prodotto, ma a prezzi irrisori, con l’intento di denunciare il paradosso di un brand che traeva profitto da una critica nei suoi confronti.
Un altro caso particolarmente significativo risale al 2009, quando UNICEF installò nella città di New York dei distributori di acqua sporca, ciascuno recante un’etichetta con il nome di una malattia causata dalla ingestione di acqua contaminata. L’obiettivo era sensibilizzare l’opinione pubblica sul drammatico problema della mancanza di accesso all’acqua potabile nei Paesi in via di sviluppo. L’iniziativa si rivelò estremamente efficace come azione di guerriglia marketing. Pensiamo, poi, a Frontline, noto antiparassitario per animali, che tappezzò il pavimento di un centro commerciale con un’enorme immagine di un cane che si grattava. Dall’alto i passanti che camminavano sulla superficie sembravano delle pulci, rendendo visivamente chiaro il messaggio. Oppure alla Colgate, che, per promuovere l’igiene orale, ideò dei gelati con un bastoncino a forma di spazzolino da denti, inducendo a riflettere sull’importanza del lavarsi i denti, soprattutto dopo aver consumato zuccheri.
Anche la pubblicità deve essere al passo con i tempi
La pubblicità non convenzionale dimostra chiaramente quanto il consumatore possa reagire in modo straordinariamente positivo se considerato un interlocutore intelligente e consapevole. Non è la pubblicità ad essere morta, ma un certo tipo di comunicazione obsoleta, ossia quella invadente, ripetitiva, che riduce il messaggio al solo imperativo del “compra”. Oggi, la pubblicità può e deve essere altro, una espressione artistica, portatrice di valori, narratrice di storie, persino strumento educativo. Continuare a trattare il pubblico come un bersaglio passivo è, non solo inefficace, ma anche culturalmente miope. Una pubblicità che sa sorprendere, coinvolgere e rispettare, lascia un segno profondo. E chi la riceve, non può che riconoscerlo.